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Nel cronoprogramma del governo Renzi era indicato a chiare lettere: nel 2018 taglio dell’Irpef. Addirittura, per un breve periodo, sembrava che l’operazione si potesse anticipare al 2017. Poi sappiamo come è andata: fra referendum costituzionale, cambio a Palazzo Chigi, infinite discussioni sui sistemi elettorali, crediti incagliati delle banche, manovrine fatte e da fare e, soprattutto, “pruderie” da elezioni anticipate, il taglio dell’Irpef è lentamente sparito. Scomparso dal Def, taciuto dai ministri competenti e, cosa forse più subdola, sostituito con altri “alleggerimenti” fiscali certamente utili, ma molto meno incisivi. Ci voleva il neo presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, a riprendere il toro per le corna e richiamare i politici alle loro responsabilità. La pressione fiscale in Italia è diventata insostenibile ed è insopportabile che gravi soprattutto sui redditi da lavoro dipendente e da pensione, oltreché sui lavoratori autonomi che denunciano – veramente – quanto dovuto. Come ha recentemente dimostrato “Itinerari previdenziali”, poco più del 12% dei contribuenti versa circa il 54% dell’Irpef complessiva.

Questo 12% è composto da contribuenti che dichiarano redditi dai 35mila ai 300mila euro annui (ma questi ultimi sono lo 0,083%; lo 0,20% quelli da 200mila euro). E il grosso, sta fra i 35mila ed i 100mila euro: questi, ad esempio, sono l’1,08% dei contribuenti, cioè un esercito di 440mila noti al fisco che versa all’erario il 17,22% del totale dell’Irpef. Quindi ridurre l’Irpef non è soltanto una grande operazione di politica economica in grado di rilanciare consumi e produzione, ma è un ambizioso progetto politico di redistribuzione della ricchezza e di equità sociale. Autorevoli personalità del mondo della politica e dell’economia sostengono che non vi sono le risorse necessarie ad un taglio generoso delle aliquote Irpef e che, di conseguenza, è meglio concentrarsi (o accontentarsi) di interventi sul cuneo fiscale. Ad esempio con sgravi per chi assume i giovani, o per chi investe in beni strumentali, o alleggerendo l’Irap o, infine, riducendo i costi delle imprese per l’energia.

Tutti provvedimenti giusti, condivisibili, indirizzati a ridurre i costi della produzione e rendere più virtuoso il ciclo economico. Insomma un po’ di ossigeno ad un’economia lenta e depressa. Ma siamo ben lontani da quello ‘scatto in avanti’ che ci farebbe colmare il gap di produttività con i nostri partner europei. Tagliare l’Irpef si deve e si può se lo inserisce in una più articolata manovra di riduzione delle aliquote e degli scaglioni accompagnandolo da un serio programma di ‘spending review’. Basterà riprendere ed aggiornare gli ottimi lavori di Cottarelli e Perotti e metterli in pratica. Qui si gioca la credibilità della politica: fare promesse, creare commissioni di studio fine a sé stesse è un gioco vecchio, piccoli escamotage ai quali non abbocca più nessuno. Cida rappresenta i manager, una figura professionale che ha nel dna il pragmatismo e la voglia di raggiungere gli obiettivi prefissati. Più sono ambiziosi e sfidanti e maggiore è l’impegno che viene profuso. Per questo Cida ha voluto fare i “compiti a casa” prima di lanciare proposte coraggiose. Abbiamo documentato come sia possibile tagliare l’’Irpef senza essere velleitari, né mettere i conti a rischio. Su questo progetto chiameremo politici ed istituzioni ad un confronto a tutto campo ma senza sconti per nessuno.

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Tagliare l’Irpef si deve e si può

Nel cronoprogramma del governo Renzi era indicato a chiare lettere: nel 2018 taglio dell’Irpef. Addirittura, per un breve periodo, sembrava che l’operazione si potesse anticipare al 2017. Poi sappiamo come è andata: fra referendum costituzionale, cambio a Palazzo Chigi, infinite discussioni sui sistemi elettorali, crediti incagliati delle banche, manovrine fatte e da fare e, soprattutto, "pruderie" da elezioni anticipate, il…

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