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Il monito del capo dello Stato Sergio Mattarella ai giovani magistrati esordienti a non scambiare la toga per “un abito di scena” potrebbe tradursi in un ordine di sfratto se il Consiglio Superiore della Magistratura, di cui lo stesso Mattarella è il presidente per disposizione costituzionale, avrà il coraggio, o solo il buon senso, come preferite, di trarne le conseguenze.

Penso, in particolare, allo sfratto che meritano quei magistrati accusati pochi giorni fa dal vice presidente dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Legnini, di dividersi con troppa disinvoltura e frequenza fra gli uffici o le aule dei tribunali dove amministrano la giustizia e i talk show. Che non vanno intesi – credo – solo come spettacoli televisivi, con la frequentazione assidua dei salotti dei vari canali, pubblici e privati, ma anche come interviste ai giornali, partecipazione a convegni di partito e persino congressi, e via dicendo.

Lo sfratto dovrebbe essere quanto meno dal palcoscenico inteso in senso lato, da ordinare ogni volta se ne presenti l’occasione, a meno che naturalmente i magistrati abituati per troppo tempo a dividersi fra tribunali e spettacoli non trovino il coraggio e il buon senso, sempre come preferite, di scegliere da soli quale parte recitare per sempre risparmiando al Csm l’onere dello sfratto dalla magistratura.

Poiché Legnini è recentemente sbottato contro le toghe, diciamo così, di scena per reazione alle ultime, clamorose esternazioni televisive e giornalistiche di Piercamillo Davigo, presidente di sezione della Corte di Cassazione, e non solo ex presidente dell’associazione nazionale dei magistrati, si può presumere che a Davigo, e alle sue abitudini, abbia voluto riferirsi anche il presidente della Repubblica parlando al Quirinale. E rimediando subito dal solito Marco Travaglio, sull’altrettanto solito Fatto Quotidiano, l’accusa di avere fatto un “fervorino” contro le toghe, e non contro i politici che ne minaccerebbero ogni giorno l’indipendenza, addirittura “insultandole e disarmandole”.

Da quelle parti, quelle cioè del Fatto, e dei partiti o delle correnti che vi si riconoscono, hanno già aperto una campagna preventiva in difesa di Davigo sospettando che “le legnate di Legnini” e quelle di Mattarella nascondano la volontà di sbarrargli l’accesso ai vertici della magistratura, essendosi avuta notizia della sua decisione di concorrere a tutte le cariche in via di rinnovo: presidente della Corte di Cassazione, procuratore generale e non so cos’altro.

Dipenderà probabilmente dall’esito di questa scalata ai vertici giudiziari anche la decisione che Davigo si è riservato di prendere per proporsi ai colleghi nell’elezione del nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, essendo prossimo alla scadenza quello in carica. A questa domanda, sulla partecipazione cioè all’elezione del nuovo Csm, Davigo ha reagito qualche giorno fa dicendo: “Non rispondo”.

È un osso duro, non c’è che dire, questo Davigo: in toga e in abito di scena, secondo le preferenze e le occasioni. Ma sotto la scorza della sua voce mai sopra le righe e della sua mitezza, anche Mattarella potrebbe rivelarsi un osso duro in questo e nel prossimo Consiglio Superiore della Magistratura, dove Davigo a tutto potrà aspirare fuorché alla carica-chiave di vice presidente, che spetta per Costituzione a un consigliere eletto dal Parlamento, non dalle toghe.

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