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Il G7 di Taormina è dietro alle spalle, e ormai con il pensiero si va al G20 mentre si consumano gli strascichi di un vertice che sicuramente non è stato segnato dal successo diplomatico.

Molti osservatori, d’altronde, hanno parlato di un sei contro uno, anche se forse sarebbe stato meglio dire che lo scacchiere è quello di un braccio di ferro uno a uno tra Germania e Stati Uniti, il quale ha fatto cadere tutto il resto in secondo piano. La causa è certamente la forte leadership che Angela Merkel è stata in grado di vantare anche questa volta, rispetto a tutti gli altri capi di governo nuovi o vecchi dell’Unione; oltre ad una esclusiva considerazione muscolare che Donald Trump ha voluto riservare praticamente soltanto alla Germania. Nella logica del presidente americano, in effetti, l’unico Stato europeo che costituisce motivo di interesse è soltanto quello tedesco: perciò con esso le divergenze si sono rese evidenti, sia in materia eco ambientale e sia dal punto di vista più generale della politica estera.

Tornata dal G7, da par suo, Merkel ha subito invocato la necessità di reagire con maggiore coesione europea alla situazione: “Il tempo in cui potevamo fidarci completamente degli altri è finito. Per questo posso dire solo che noi europei dobbiamo veramente prendere in mano il nostro destino”. “Naturalmente – ha precisato – dobbiamo continuare a mantenere relazioni di amicizia con Usa e Gran Bretagna, e con vicini come la Russia”: in altre parole, nessun accordo sui temi cruciali per colpa di Trump.

La vera forza della Cdu è oggi quella di poter immaginare realisticamente una riconferma alla guida di una larga coalizione a fine settembre, con ancora Freu Merkel al timone. Per questo lei per prima ostenta potenza e sicurezza.

La palla rimbalza così agli altri Paesi europei, che si trovano stretti in una morsa creata direttamente da questa linea di “autarchia tedesco-continentale”, in perfetta continuità con il passato, la quale allontana Trump, spingendolo a giocare un ruolo tutto suo, fuori dal contesto delle relazioni euro-atlantiche.

Il destino dell’Europa, insomma, sembra segnato a restare senza alternative ad un atlantismo che non c’è o ad un pangermanismo che poco ha di digeribile ormai fuori dalle mura di Berlino.

La presa d’atto di questa complessa situazioni richiederebbe degli smarcamenti soprattutto dell’Italia, oramai in vista di elezioni politiche alle porte, sapendo dare cioè un’interpretazione del proprio ruolo diverso ed alternativo rispetto alla Germania, pur sempre in un quadro generale nel quale la prospettiva dell’Unione resti indiscussa ed indiscutibile.

Sebbene, infatti, gli Stati Uniti dell’era Trump non paiano prendere in considerazione minimamente un rilancio della politica di sostegno ad alleati percepiti come piccoli, lontani e poco significanti, l’Italia, specialmente in un contesto possibile di larghe intese, potrebbe giocare in modo serio la sua partita, accentuando uno smarcamento da Berlino e creando un ponte autonomo con Washington.

Non soltanto, infatti, il nostro è il Paese del Piano Marshall, ma Roma è la sede del Papa, per Trump unico incontro che ha avuto qualche esito positivo. Pensare una politica estera futura senza Europa, oppure accucciata sotto la Germania, disegnerebbe il profilo di un’Italia insignificante e senza alcuna consapevolezza di sé. Mentre essere un Paese fondatore dell’Europa, con un connotato chiaramente filo atlantico, risponderebbe ad un’esigenza del momento e ad una missione che la storia affida sempre e comunque, non solo dal punto di vista geopolitico, al nostro Paese.

Certo, prima ci sono le elezioni. E sebbene sia chiaro che il Pd costituirà sicuramente l’ago della bilancia di qualsiasi progetto di governabilità possibile, si attende una reciproca e coerente presa di posizione in questo senso da parte di Silvio Berlusconi e dell’area popolare del cosiddetto Centrodestra.

Governare in coalizione non solo è possibile, ma anzi è necessario, secondo la nostra Costituzione (confermata dal Referendum) e secondo la logica stessa di un sistema parlamentare rappresentativo di un pluralismo elettorale presente realmente nella società. Essere disponibili però a fare insieme al Pd una maggioranza anti populista non significa per il Centrodestra poter fare a meno di offrire prima agli elettori, al di là di ogni successivo accordo con Matteo Renzi, una propria visione politica dell’Italia, una propria guida, con una ricetta liberale e conservatrice di crescita economica, incentrata sul rafforzamento dello Stato democratico, e appunto su un’inossidabile e ribadito legame di amicizia con gli Stati Uniti.

In fin dei conti, europeismo sì; atlantismo sì; ma pangermanismo e marginalità no. Il resto si vedrà dopo il voto.

Berlusconi, atlantismo, biotestamento, ippolito, bipolarismo

Il destino dell’Italia tra atlantismo e pangermanismo

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