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Abbiamo un problema serio in Europa: si chiama Italia.

L’Unione Europea affronta ormai da un decennio sfide che non sono più coerenti con il mancato esercizio della sovranità e che richiederebbero spazi pubblici di esercizio delle scelte collettive.

Ma da un lato abbiamo una progressiva perdita di efficacia delle istituzioni nazionali di fronte a problemi che richiedono dimensioni di intervento sovranazionali; dall’altro un modello d’integrazione ancora incompiuto a livello europeo, nel quale la sovranità condivisa è ancora un miraggio.

La crisi economica, quella della sicurezza, l’emergenza (che purtroppo in realtà non è solo un’emergenza) migranti sono sfide che richiedono invece capacità di assumere decisioni collettive efficaci, democraticamente legittimate ed urgenti.

In mancanza di istituzioni e meccanismi decisionali che consentano di esercitare queste scelte a livello collettivo europeo, ciascun paese va per conto proprio, navigando a vista; e l’Europa risulta allo sbando.

Il metodo dei compromessi intergovernativi è fallito. Non poteva essere altrimenti: cercare di trovare una soluzione univoca nel quadro di negoziati diplomatici fra interessi diversi è impossibile, soprattutto quando si può ricorrere al diritto di veto (simbolo estremo della tirannia di una minoranza sulla maggioranza, tipico delle istituzioni appunto intergovernative).

Con queste istituzioni l’Unione Europea non può più andare avanti. E se non va avanti è costretta a tornare indietro, verso il modello monopolistico nazionale di gestione delle scelte collettive: senza una genuina democrazia sovranazionale, l’unico spazio (apparentemente) democratico di scelta collettiva rimane quello nazionale.

Oggi esiste però una nuova finestra di opportunità di cambiamento.

Macron e Merkel possono esercitare una leadership (e sembrano interessati a farlo) che permetta, tramite singole iniziative (difesa e sicurezza, bilancio e investimenti), di far avanzare una parte dell’Unione Europea nella direzione di una genuina democrazia sovranazionale.

Macron, in particolare, ha capito perfettamente che senza una profonda riforma delle scelte politiche, delle istituzioni e dei meccanismi decisionali in Europa (tali da farle acquisire capacità di esercitare collettivamente parte della sovranità) la Francia (così come ciascun altro paese) è destinata a ritornare al nazionalismo; e vincerebbe allora Marine Le Pen, perché gli elettori preferiscono sempre l’originale.

In Germania la Merkel fa fatica a mettere a fuoco questo concetto: perchè è estraneo alla sua personale storia culturale, perché guida il paese economicamente e politicamente egemone in Europa, perché ha già solide alleanze sia all’interno che al di fuori dell’Unione Europea. Ma anche la Merkel intuisce che con una rinnovata vitalità francese le conviene stare al passo dei cambiamenti, facendosi artefice di una nuova (o magari semplicemente rinnovata, staremo a vedere nei prossimi mesi) governance economica e politica europea.

L’Italia ha storicamente costituito un punto fondamentale di mediazione fra i punti di vista e gli interessi diversi di Francia e Germania, fornendo quella spinta e quel luogo di compromesso che hanno consentito al processo d’integrazione europea di avanzare, sfruttando il motore franco-tedesco. Così è stato con la conferenza di Messina dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa, così è stato con il varo del Sistema Monetario Europeo, e ancora negli anni Ottanta e primi anni Novanta, fino alla nascita dell’euro.

Oggi in Italia invece la lotta politica è chiaramente impostata su ottiche d’interesse meramente (e illusoriamente) nazionali; su miopi logiche elettorali.

Per realizzare l’obiettivo di una qualche forma di democrazia sovranazionale serve credibilità, responsabilità; serve assumere impegni e mostrare capacità di rispettarli. Serve una classe politica e dirigente all’altezza di questo obiettivo.

Per questo il problema più serio in Europa in questo momento è l’Italia. È l’anello debole di un tentativo, per adesso solo vagamente abbozzato, di riprendere un cammino comune, di recuperare la promessa tradita di una sovranità esercitata in maniera condivisa, e non lasciata ai soli centri di potere e d’interesse nazionali.

Lo abbiamo intuito con le ipotesi di realizzare un bilancio comune dell’eurozona e per la difesa comune, che hanno visto risposte tiepide da parte dell’Italia.

Così come lo dimostrano chiaramente anche i recenti dibattiti sulla questione degli sbarchi e delle quote migratorie. Il Ministro degli Interni Minniti ignora per mesi i vertici con gli altri colleghi, salvo poi ricordarsi improvvisamente che siamo noi ad avere il problema degli sbarchi, e si precipita a fare la voce grossa al vertice informale di Parigi e poi a Tallin.

Quando Francia e Germania ci “scaricano” sui migranti, non fanno altro che prendere atto di un atteggiamento di mancanza di responsabilità dimostrato dall’Italia nei confronti dell’Europa, del progetto che rappresenta e delle sue istituzioni negli ultimi due decenni.

Sono quindi fuori luogo le prese di posizione contro l’Europa, fiorite negli ultimi giorni nel paese. Oltretutto mentre l’Europa, per essere precisi, attraverso il suo organo di governo (la Commissione), cerca in tutti i modi di trovare delle risorse per aiutare l’Italia ad affrontare le emergenze.

E la mancanza di responsabilità e di serietà con cui si è espresso l’unico candidato premier di cui ad oggi si abbia notizia, Renzi, è sconfortante. Dopo aver lui stesso barattato la disponibilità dell’Italia a gestire autonomamente gli sbarchi dei migranti nel 2014 per ottenere qualche zero virgola in più di flessibilità di bilancio, dimostrando una miopia strategica che lascia disarmati, minaccia oggi di mettere il veto sul Fiscal Compact (?!?) se l’Europa non si farà carico del problema migranti. Ma il Fiscal Compact è nella nostra carta costituzionale da oltre cinque anni; e ci è stato messo dal governo (sostenuto in Parlamento da un’ampia maggioranza, capeggiata dal PD) perché senza assicurazioni sul rientro dal debito non ci sarebbe stata la disponibilità a realizzare quell’accordo politico che consentì a Draghi di parlare di “whatever it takes” e lanciare poi il quantitative easing, che hanno permesso di salvare l’euro, diminuire gli spread fino a livelli sostenibili ed evitare all’Italia la bancarotta.

Tutto questo teatrino della politica, messo in piedi solo nella speranza sempre più disperata di raggranellare qualche voto in più in vista della prossima tornata elettorale, si consuma intanto sulla pelle di persone. Sia dei migranti, sia di coloro che -volenti o nolenti- si trovano ad accoglierli.

Il cittadino italiano è stato progressivamente privato persino dell’illusione di poter esprimere una scelta in occasione delle elezioni, di esercitare i suoi diritti democratici. Perché non è più possibile distinguere un messaggio politico dall’altro, se non sulla base di chi dice sciocchezze più grosse.

È un gioco pericoloso. Che può funzionare solo se tutti i partiti dell’intero arco parlamentare sono disposti a giocarlo (cosa che fino ad oggi ha peraltro funzionato egregiamente, grazie a spartizioni di potere a vari livelli).

Per questo l’unica speranza per il cittadino italiano di recuperare un minimo spazio di esercizio della sovranità, di poter contare ancora qualcosa per affrontare e risolvere i problemi, è di farlo in qualità di cittadino europeo, laddove gli sia permesso.

Dovremmo sperare che finalmente emerga, come per miracolo, in Italia, qualche figura politica disposta a scommettere sulla serietà dei propri messaggi e la responsabilità dei propri comportamenti; e soprattutto sull’intelligenza, non sull’ignoranza, del proprio elettorato. Per ridurre al minimo i rischi connessi al prevalere del fattore “I”, l’irresponsabilità dell’Italia e la sua conseguente irrilevanza nel percorso di rilancio dell’integrazione europea che potrebbe concretizzarsi nei prossimi mesi: l’unica possibilità che abbiamo di dare ancora un senso alla nostra appartenenza sociale e politica collettiva.

L’Europa e il fattore “I”

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