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(Articolo ripreso da www.graffidamato.com)

È, a dir poco curioso, se non vogliamo chiamarlo farlocco, lo “scontro”, o il “duello” o quant’altro si è svolto fra Matteo Renzi e Dario Franceschini, o viceversa, in verità più sui giornali che nella riunione della direzione del Pd. Dove il ministro dei beni culturali, e socio di maggioranza, chiamiamolo così, del risegretario del partito nella campagna congressuale conclusasi in aprile con le primarie, ha votato la relazione di Renzi, diversamente dalle minoranze del guardasigilli Andrea Orlando e del governatore pugliese Michele Emiliano. Che per marcare il dissenso – è stato spiegato ai giornalisti – hanno disertato la votazione.

Se uno vota a favore della relazione del segretario da cui in parte avrebbe dissentito, vuol dire che qualcosa non va, o non è andata, o nel dissenso o nella votazione, come preferite.

Il dissenso è nato o nasce dal problema delle alleanze di governo, che Renzi considera prematuro preferendo definire prima ben bene il programma col quale presentarsi agli elettori, ormai nella prossima primavera, e cercare di prendere più voti possibili, almeno per non essere sorpassato dal pur malmesso movimento grillino delle 5 stelle, e di cui invece Franceschini vorrebbe si parlasse già prima del voto, convinto che da soli sia più facile perdere che vincere. Ebbene, mi chiedo se il ministro dei beni culturali ci fa o ci è. Fa il furbo, il tattico e quant’altro, o davvero pretende che il suo partito si vincoli prima delle elezioni ad un’alleanza con i fuoriusciti, cioè con gli scissionisti, compromettendo quelle pur modeste capacità di attrazione che ha verso un elettorato moderato che ha continuato anche nelle recenti elezioni amministrative a non tornare a votare per Silvio Berlusconi? Il quale, per quanto abbia gonfiato il petto per negare di avere subìto sorpassi da parte dei leghisti, è costretto ogni giorno a contestare o fare contestare da qualcuno della sua corte la scalata di Matteo Salvini alla guida di un’eventuale riedizione del centrodestra. Che è tanto sperimentata a livello locale quanto improbabile a livello nazionale.

Poiché Franceschini è lo stesso ministro, o dirigente del Pd, non un omonimo o un sosia, che non si è lasciata scappare occasione da almeno tre anni a questa parte per contestare la demonizzazione delle cosiddette larghe intese fatta dalla sinistra interna ed esterna al Pd pensando proprio a Berlusconi, lasciatemi dire che non mi convince la rappresentazione della rottura intervenuta o avviata con Renzi. Che intanto, non essendo uno sprovveduto, ha gestito le varie fasi congressuali del Pd in modo da non rendere più decisivi i numeri di Franceschini nella direzione e nell’assemblea nazionale, o come altro si chiama, del partito. Né penso che abbasserà la guardia, specie dopo lo spreco di muscoli attribuiti al ministro, nella elaborazione delle liste dei candidati al Parlamento, e quindi nella formazione dei gruppi delle nuove Camere.

Consiglierei pertanto di aspettare le elezioni politiche, non quelle siciliane di novembre, e le scelte che dovranno seguire per valutare confini e dimensioni di questo così intempestivo annuncio di duelli, scontri e simili fra il ministro dei beni culturali e il segretario del suo partito. Intempestivo, questo annuncio, quanto quello degli ospiti conviviali di Silvio Berlusconi che hanno appena preso per buona la sua speranza di potere arruolare nella campagna elettorale del 2018 addirittura Sergio Marchionne, conoscendone la vicina scadenza del contratto di amministratore delegato della ex Fiat. Ma dimenticandone i consolidati e ostentati rapporti con Renzi.

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