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L’attacco di ieri alla chiesa di San Giorgio di Tanta e alla cattedrale di San Marco ad Alessandria, costato la vita a 43 cristiani copti e prontamente rivendicato dallo Stato islamico, permette al gruppo jihadista di trasmettere più messaggi simultaneamente. Vediamoli uno alla volta.

Primo: nonostante l’imminente caduta della capitale del califfato Mosul e l’accelerazione dei preparativi dell’offensiva a guida americana contro la roccaforte siriana di Raqqa, lo Stato islamico è vivo e vegeto. Lo dimostra l’intensificarsi delle operazioni esterne, a partire dagli attentati di San Pietroburgo, Stoccolma e quello duplice di ieri in Egitto. Il significato di questa recrudescenza è chiaro: anche se il Califfato si sgretolerà, il movimento jihadista continuerà ad operare, con azioni di guerriglia in Iraq e Siria, dove il gruppo andrà semplicemente underground, e con attacchi su scala globale condotti dalle divisioni locali dello Stato islamico – le famigerate “province”, di cui quella egiziana è stata la prima a prendere forma.

Secondo: prendendo di mira i copti, lo Stato islamico ripropone uno dei suoi marchi di fabbrica, il settarismo, attraverso il quale seminare il caos nei Paesi a maggioranza islamica dove sono presenti minoranze religiose più o meno robuste. La volontà genocida nei confronti dei cristiani è uno degli elementi distintivi del gruppo, come dimostra l’esodo biblico dei cristiani iracheni, cui dopo la conquista di Mosul fu posto un aut aut: convertirsi, pagare la tassa apposita o morire. Nel caso dell’Egitto, colpire i copti ha un enorme valore simbolico. Si tratta infatti della più numerosa minoranza cristiana di tutto il Medio Oriente, forte di 10 milioni di credenti pari al 10% circa della popolazione egiziana. Fomentando l’odio nei confronti dei cristiani, lo Stato islamico usa una carta particolarmente efficace per catturare il consenso dei musulmani. Nella sua storia millenaria, la chiesta copta è stata più volte presa di mira dalla maggioranza islamica; lo Stato islamico fa propria la tradizionale hubris islamica, trasformandola in perno di una strategia che mira a destabilizzare l’Egitto.

Terzo: seminando morte e terrore in Egitto, lo Stato islamico prende di mira direttamente il regime del presidente al-Sisi, la cui strategia si impernia proprio nel garantire la sicurezza ad un paese inquieto. Gli attacchi di ieri arrivano peraltro a meno di una settimana dalla visita di al-Sisi a Washington, dove è stata subito sintonia tra il presidente e Donald Trump, che in al-Sisi vede una garanzia contro l’espansionismo jihadista. Anche se gli attentati rafforzeranno l’asse Washington-Cairo, è chiaro che la sfida dello Stato islamico mette a repentaglio la credibilità di al-Sisi, costruita sul tentativo di tenere unito il paese e di superare le divisioni settarie che attraversano, come un fiume carsico, la nazione dei faraoni.

Quarto: il prossimo 28 aprile Papa Francesco sarà in Egitto, dove incontrerà al-Sisi, l’imam di al-Azhar al-Tayyib e il Papa copto Tawadros II. Il viaggio papale promette dunque di essere storico. Quale miglior modo, per oscurarne il significato, della strategia della tensione? Agli occhi dei jihadisti, la presenza della suprema autorità cattolica in Egitto rappresenta un atto di blasfemia, a maggior ragione se servirà a intensificare il dialogo tra le due maggiori religioni mondiali. E il jihadismo è il nemico giurato del dialogo interreligioso, non foss’altro perché i cristiani sono “idolatri” e dunque meritevoli di persecuzione, non certo di ricevere un’accoglienza solenne in una delle culle dell’islam.

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