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I numeri sono impressionanti. In Italia Google nel 2015 ha pagato appena 2,2 milioni di tasse per la pubblicità raccolta online, mentre Facebook ha versato al fisco appena 0,2 milioni di euro su 224,6 milioni di ricavi originati in Italia. A sottolinearlo, in un’audizione davanti alle commissioni Finanze e Industria del Senato, è stato il professor Alberto Zanardi, membro dell’Ufficio parlamentare di bilancio, che è stato ascoltato in merito al disegno di legge che prevede misure fiscali per la concorrenza nell’economia digitale, la cosiddetta web tax.

Pochi spiccioli, insomma, rispetto al reale fatturato che i due colossi del web maturano nella rete. Basti pensare che le due società nel nostro paese detengono quasi il 50% di un mercato che vale 2,3 miliardi di euro in base ai dati dello scorso anno elaborati dall’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano. Ma attualmente i due colossi web versano poco o nulla al fisco anche in virtù delle consolidate – e purtroppo pienamente legali – pratiche di elusione fiscale dal paese d’origine geografica dei ricavi. Misure che pongono in Irlanda la sede europea dei due gruppi, con successive triangolazioni finanziarie che coinvolgono i Paesi Bassi e un paradiso fiscale (le Bermuda per Google, le Isole Cayman per Facebook). Tanto che se, per ipotesi, venisse approvato il disegno di legge che porta la firma del presidente della Commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti, Google dovrebbe corrispondere all’erario 19,2 milioni, quasi dieci volte di più e Facebook con l’introduzione della nuova norma pagherebbe 6,1 milioni di euro.

“Ipotizzando una struttura dei costi omogenea a quella delle imprese in Italia – ha spiegato Zanardi – il gettito a carico di Google, applicando l’aliquota implicita sul fatturato del 3,4% è pari a 19,2 milioni di euro”.

Tuttavia questi risultati devono essere letti con molta cautela, in quanto trascurano “le reazioni comportamentali che potrebbero indurre a rafforzare altre pratiche elusive delle imprese, al fine di ridurre i profitti imponibili al nostro Paese”. Ma le somme che Google e Facebook dovrebbero al fisco italiano lieviterebbero ulteriormente se fosse applicata l’altra ipotesi del disegno di legge Mucchetti, ovvero l’applicazione di una ritenuta alla fonte del 26%, perché in questo caso l’imposta sarebbe di 133 milioni per Google e a 56,6 milioni per Facebook, ossia 188 milioni in più di quanto versato all’erario due anni fa.

Il disegno di legge introduce infatti il concetto di stabile organizzazione occulta”, basato su tre criteri: l’attività nel territorio dello Stato, in via continuativa, di attività digitali pienamente dematerializzate (come la pubblicità online); un numero di transazioni superiore a 500 unità singole in un semestre; realizzazione sempre su base semestrale di un ammontare complessivo non inferiore a un milione di euro. Alle società che rifiutano di regolarizzarsi verrebbe applicata una ritenuta alla fonte pari al 26% degli importi pagati, analoga alla diverted profit tax inglese.

Le misure studiate nel disegno di legge, ha spiegato il professor Zanardi nel sorso dell’audizione, non hanno tanto l’obiettivo di “introdurre un prelievo generalizzato, quanto piuttosto quello di avere uno strumento anti-abuso che conferisca all’amministrazione fiscale poteri di accertamento”. Si può d’altra parte osservare, ha detto ancora Zanardi, che “il 26% è l’aliquota standard che si applica normalmente ai redditi da attività finanziarie”.

Resta fondamentale comunque, come previsto nel disegno di legge, la creazione “di un apposito ufficio dedicato al contrasto all’elusione fiscale presso l’Agenzia delle entrate che abbia competenze appropriate dal punto di vista tributario, anche considerato il mercato particolarmente complesso”. “Vogliamo richiamare l’esperienza inglese della diverted profit tax in cui l’amministrazione finanziaria si è vista attribuire, a fronte di queste nuove competenze, non solo poteri più estesi ma anche un ammontare di risorse finanziarie destinate soprattutto all’implementazione di procedure informatiche adeguate”. In questo caso, dunque, “c’è il problema di avere un ufficio adeguato, con adeguati finanziamenti” ha concluso Zanardi.

Tuttavia è lo stesso membro dell’Ufficio parlamentare di bilancio ad avere qualche dubbio sull’introduzione di un sistema di tassazione sull’economia digitale fatto solo dal nostro Paese perché questo “può avere una qualche efficacia solo in un contesto di regulation sovranazionale e con un forte coordinamento degli interventi a livello europeo”.

Le imprese digitali non avrebbero alcuna difficoltà ad aggirare le nuove norme utilizzando le potenzialità tecnologiche o trasferendo i costi nelle giurisdizioni dove la tassazione è più elevata. Insomma web tax sia ma a livello europeo. Altrimenti gli effetti rischierebbero di essere quasi nulli.

ALBERTO ZANARDI

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