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Dunque, ci siamo. Più Beppe Grillo ha rogne, più se le cerca, più fa quello che vuole, sino a stufare e allarmare uno come Marco Travaglio, che si è deciso a prenderne le distanze sul suo Fatto Quotidiano declassando a “grillarie” le comunarie e ogni altro livello di selezione digitale dei candidati pentastellati a “portavoce” parlamentari o consiliari, annullandole quando non danno i risultati che si aspettava o confermandole in caso contrario, più guadagna voti. Li guadagna almeno nei sondaggi di Nando Pagnoncelli fatti per il Corriere della Sera, si spera non con lo stesso sistema o criterio digitale di Grillo. Siamo così arrivati all’annuncio sul giornale più diffuso d’Italia del “sorpasso” appena compiuto dal movimento 5 stelle sul Pd.

E che sorpasso, signori. Di ben cinque punti, per cui i grillini sarebbero ormai al 32,31 per cento dei voti, fortunatamente quasi 8 in meno del 40 per cento col quale la legge elettorale in vigore per la Camera conferirebbe loro quasi il 55 per cento dei seggi di Montecitorio. E il Pd del Renzi uscente e rientrante come segretario sarebbe a circa il 25,5 per cento, col diritto di sorridere solo della débacle degli scissionisti. Che sono fuggiti da Renzi pensando di guadagnare almeno il 10 per cento dei voti e possono invece contare solo sul 3, sempre per i sondaggi di Pagnoncelli. Che, se veramente riflettessero l’opinione e le tendenze degli elettori italiani, dovrebbero farci dire che in questo Paese piace più il polso che la democrazia: il polso purtroppo di Grillo, in questo disgraziatissimo 2017, piuttosto che il polso attribuito a Renzi dai suoi avversari interni ed esterni.

Temo che a questo punto, sempre stando ai sondaggi di Pagnoncelli, se al comico genovese saltasse in mente il gusto o il capriccio di dare uno dei suoi spettacoli dal balcone di Palazzo Venezia, facendoselo prestare per una mattina o un pomeriggio, o anche una sera, dal proprietario, la gente accorrerebbe nella piazza sottostante come ai tempi della Buonanima. D’altronde, sui tetti del dirimpettaio Campidoglio già usa salire, fare colazione, godersi lo spettacolo di Roma e scampare a qualche inopportuna intercettazione immaginata dai soliti patiti della dietrologia la sindaca pentastellata Virginia Raggi.

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Sono passati 42 anni – sembrano tanti, troppi, ma non lo sono – dal 1975, quando Indro Montanelli alla direzione del Giornale da lui fondato solo un anno prima trasecolò davanti ai risultati delle elezioni regionali. Che avevano ridotto a meno di due punti – esattamente 1,81 per cento – le distanze fra la Dc di un ormai declinante Amintore Fanfani e il Pci di Enrico Berlinguer, usciti dalle urne, rispettivamente, con il 35,27 e il 33,46 per cento dei voti.

La sera dei risultati un folto gruppo di militanti e simpatizzanti comunisti raggiunse Piazza di Pietra, dove si trovava la redazione romana del Giornale, per citofonarci e invitarci a “chiudere”. Quando glielo riferii, Montanelli mi rispose alla sua maniera: “Bischeri”.

L’anno dopo, nelle elezioni anticipate provocate dal segretario socialista Francesco De Martino con l’annuncio che il suo partito mai più avrebbe collaborato con la Dc senza l’appoggio dei comunisti, lo scudocrociato, nel frattempo passato dalle mani di Fanfani a quelle del medico moroteo Benigno Zaccagnini, riuscì a recuperare un bel po’ di voti e ad aumentare le distanze dall’inseguitore. Ma ciò avvenne a spese dei tradizionali alleati laici della Dc, danneggiati dall’appello proprio di Montanelli a votare per i democristiani “turandosi il naso”. “Non è stato bello, ma ci ha fatto un grandissimo comodo”, mi disse poi, sornione, Giulio Andreotti.

Mi chiedo se esiste oggi nel mondo del giornalismo un Montanelli in grado di aiutare il Pd di Renzi, che bene o male ha preso il posto della Dc di allora, a sottrarsi al sorpasso grillino. Ahimé, non ne vedo. E ciò specie dopo avere assistito alle botte, sia pure di carta, che sono riusciti di recente a scambiarsi fra di loro per farsi concorrenza nelle edicole due aspiranti alla successione a Montanelli: Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro, l’uno desideroso di rappresentare l’altro come il più dipendente dal “padrone”, cioè dall’editore di turno. Altri tempi e, soprattutto, altri uomini.

Tempi curiosi, i nostri, anche per la paradossale sostituzione del Pci di Berlinguer, a proposito di sorpasso, col movimento di Grillo: due partiti e due uomini che più diversi non potrebbero essere. Così come più diverso non potrebbe essere il Renzi del Pd-post Dc di oggi e lo Zaccagnini dello scudocrociato di 41 anni fa.

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Qualcuno potrebbe chiedermi dove mettere, in questo gioco differito di specchi, Silvio Berlusconi. Non saprei, francamente, almeno sino a quando l’ex presidente del Consiglio non si deciderà a prendere atto di quanto è cambiato lo scenario politico anche dal suo esordio nel 1994. E non sceglierà davvero, una volta per tutte, fra il leghismo lepenista di Salvini, al netto di tutti i  momentanei ripiegamenti tattici, e il popolarismo europeo cui Forza Italia aderisce formalmente.

Non credo che per il recupero non tanto e non solo della sua agibilità, intesa come candidabilità elettorale, ma del suo spazio politico possano bastare a Berlusconi le soddisfazioni che gli danno di tanto in tanto le cronache politiche e giudiziarie.

Alludo, naturalmente, all’appena mancata decadenza da senatore dell’amico Augusto Minzolini per effetto di una legge – quella che porta il nome della guardasigilli di Mario Monti, Paola Severino – costata invece il seggio a Berlusconi nel 2013, a dimostrazione di quanto essa sia bislacca e possa cadere nella censura della Corte di Strasburgo alla quale lui ha fatto ricorso. Ma ancor più alludo ai crescenti guai giudiziari di Gianfranco Fini e della famiglia acquisita unendosi a Elisabetta Tulliani. Il cui fratello è scampato per ora all’arresto per riciclaggio standosene lontano dall’Italia.

Con tutto il garantismo cui ha diritto pure lui, per carità, coinvolto in pieno nelle indagini, Fini paga anche lo scotto politico di avere cavalcato di fatto il giustizialismo contro l’allora alleato Berlusconi. Che pure lo aveva portato prima alla Farnesina e poi al vertice di Montecitorio, dove l’ultimo governo berlusconiano rischiò la sfiducia con una mozione preparata addirittura nello studio del presidente della Camera.

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