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Fra i tanti divieti in vigore in Italia c’è anche quello delle scuse, scambiate per qualcosa di poco dignitoso, d’indegno, di pusillanime, di infamante. Non te le chiede nessuno, le scuse. Neppure quando, investendoti sulle strisce, uno ti riduce in fin di vita. E gli viene anche la voglia di mandarti a quel paese perché sei tu che non hai saputo fermarti in tempo, e non lui.

In politica le cose non vanno meglio. Ed è naturale, perché la politica non è né migliore né peggiore del posto dove la si pratica. Ne è più semplicemente e banalmente lo specchio. Ciò vale anche per i giornali, le cui redazioni sono sempre più affollate di energumeni della parola e dei sentimenti.

Vi ricordate le reazioni indignate della stampa del non lontano 14 marzo scorso, con quelle foto dell’aula quasi deserta di Montecitorio scattate il giorno prima, all’apertura della discussione sulla legge del cosiddetto biotestamento? In quelle immagini fu indicata la prova del degrado del Parlamento, della sua indifferenza di fronte ai problemi del Paese. Una indifferenza aggravata dalla recentissima morte di un paziente accompagnato in una clinica svizzera dal radicale Marco Cappato a finire volontariamente e dignitosamente i suoi giorni tanto privi di luce quanto pieni di sofferenze.

Si disse e si scrisse che da un Parlamento capace di mobilitarsi solo per difendere i vitalizi, o come altro si chiamano, dei suoi membri non ci sarebbe stato altro da aspettarsi. E quei pochi, pochissimi che ci sforzammo di spiegare come e perché di lunedì mattina non ci si potesse attendere un’aula parlamentare affollata, se non di comparse per qualche film, fummo scambiati e liquidati per i soliti fessi o, peggio ancora, prezzolati.

Ebbene, la legge sul cosiddetto biotestamento, fra le più delicate e difficili per i suoi contenuti e risvolti morali, trattandosi della fine di un paziente, è stata appena approvata, in poco più di un mese d’aula, comprensivo delle sospensioni dei lavori di fine settimana e di Pasqua, con 326 sì e “soli” 37 no, come ha lamentato il quotidiano dei vescovi italiani Avvenire: lo stesso incautamente avventuratosi proprio alla vigilia di quel voto a ospitare sulle proprie pagine, mettendolo il più possibile a suo agio, il “garante” del Movimento 5 Stelle, senza il cui concorso il provvedimento non sarebbe di certo uscito dall’aula di Montecitorio per passare al Senato.

C’è stato un giornale, fra i tanti che dedicarono le loro prime pagine del 14 marzo all’aula “scandalosamente” vuota della Camera, o un giornalista o un politico, fra i tanti che presero a male parole gli assenti, e diedero degli ipocriti ai pochi presenti, che si sia scusato per la tempestività e serietà con cui invece gli uni e gli altri hanno alla fine legiferato? No. Nessuno.

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Poco più di un mese è passato anche dal famoso – e per molti scandaloso – salvataggio di Augusto Minzolini dalla decadenza da senatore proposta dalla competente giunta di Palazzo Madama, in applicazione della cosiddetta legge Severino, per una condanna definitiva rimediata quasi un anno e mezzo prima dall’ex direttore del Tg1 per peculato. Un salvataggio avvenuto con voto non segreto ma palese, grazie a 19 senatori del Pd convinti che quella condanna fosse stata ingiusta o quanto meno anomala non per una ma per una serie di ragioni: per esempio, per il contributo dato alla sentenza da un magistrato reduce da una lunga esperienza politica dalla parte opposta a quella dell’imputato, o per essere stato quest’ultimo assolto per la stessa questione in sede civile.

Oltre agli insulti a Minzolini e a quanti lo avevano “salvato”, partì una campagna ad opera del solito Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, con l’altrettanto solito sostegno di grillini e simili, contro lo stesso Minzolini per inadempienza della promessa fatta, prima del voto, di dimettersi in ogni caso da senatore. Cominciarono a contargli i giorni, le ore, i minuti e i secondi che trascorrevano inesorabilmente dalla promessa senza che lui si decidesse a scrivere e a consegnare la lettera di dimissioni agli uffici del Senato.

Una volta presentate, le dimissioni vennero però bollate come una manfrina, essendo destinate, secondo le previsioni e valutazioni dell’espertissimo Travaglio, a rimanere in qualche cassetto sino alla fine ordinaria, e non lontana, della legislatura. O ad arrivare in aula solo per essere respinte, a scrutinio obbligatoriamente segreto, con la scusa della consuetudine consolidata del no in prima battuta ad una rinuncia spontanea al seggio. Seguivano gli immancabili conti delle indennità e altre entrate senatoriali di Minzolini già riscosse dopo la condanna definitiva, e la mancata decadenza immediata, e di quelle che il mascalzone forzista avrebbe continuato a percepire sino all’epilogo della legislatura. Non parliamo poi degli inviti più o meno minacciosi al presidente del Senato, e persino a quello della Repubblica, perché venisse impedita una simile vergogna.

Ebbene, le dimissioni di Minzolini, una volta presentate, registrate e timbrate, sono arrivate in aula in meno di un mese. E a scrutinio rigorosamente segreto, nonostante il tentativo del capogruppo del Pd Luigi Zanda di strappare al presidente del Senato una deroga per il voto palese che avrebbe, a mio modestissimo avviso, semplicemente disonorato il Parlamento, le dimissioni sono state accolte con 142 sì e 106 no.

In un paese civile il giornale di Travaglio ne avrebbe preso atto scusandosi con il pur “pregiudicato” Minzolini, come l’ex senatore viene definito abitualmente dal direttore del Fatto Quotidiano. Che ha dato la notizia titolando così, sopra la stessa testata del giornale: “16 mesi dopo la condanna definitiva e l’interdizione Minzolini finalmente lascia il Senato e dà la colpa al Fatto. Grazie di cuore, per noi è una medaglia”. Sempre in prima pagina sono dedicate al caso Minzolini cinque, dico cinque, righette in corsivo di una rubrica il cui titolo basta e avanza per capire di che cosa si tratti: La cattiveria.

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Poche parole infine per dirvi delle scuse che non riceverà mai Raffaele Cantone, il presidente dell’Autorità Anticorruzione al quale un decreto del Consiglio dei ministri di aggiornamento del cosiddetto codice degli appalti, per delega ricevuta dal Parlamento, ha tolto il controllo preventivo delle gare. Rimedieremo all’errore, è stato annunciato dal ministro cosiddetto competente, Graziano Delrio.

Ma chi materialmente abbia potuto o voluto commettere lo sbaglio, di quale livello e per quale motivo, naturalmente non si saprà mai. Anche questa è un’abitudine tutta italiana.

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