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E’ bello ringiovanire ogni tanto, come mi consente generosamente la politica riproponendomi fatti e personaggi di tanti anni fa, pur sotto spoglie naturalmente diverse.

La riunione odierna della direzione del Partito Democratico indetta da Matteo Renzi per sciogliere, o cercare di sciogliere, il nodo del congresso o delle elezioni anticipate mi ricorda maledettamente quella della Democrazia Cristiana convocata per martedì 25 giugno 1974 dall’allora segretario Amintore Fanfani.

L’aretino era tornato al vertice del partito solo un anno prima, col famoso accordo fra tutti i capicorrente dello scudocrociato riunitisi a Palazzo Giustiniani, nella disponibilità del presidente del Senato, quale lui era in quel momento, per impedire che un congresso ormai in apertura confermasse Arnaldo Forlani alla segreteria e Giulio Andreotti al governo della cosiddetta “centralità”, con i liberali di Giovanni Malagodi al posto dei socialisti di Giacomo Mancini.

L’accordo di Palazzo Giustiniani poi ratificato dal nuovo Consiglio Nazionale, aveva restituito a Fanfani la segreteria del partito perduta nel lontano 1959 e al doroteo Mariano Rumor Palazzo Chigi, per riprendere l’esperienza di centrosinistra interrottasi con l’elezione di Giovanni Leone al Quirinale alla fine del 1971. Aldo Moro, saltata l’ipotesi della presidenza della Camera per il rifiuto opposto del socialista Sandro Pertini di dimettersi, era stato “dirottato” al Ministero degli Esteri.

Un anno dopo lo scenario politico cambiò radicalmente. Fanfani, pur ancora in sella come segretario, divenne il famoso tappo politico impietosamente scolpito a matita da Giorgio Forattini sulla prima pagina di Paese Sera, saltato da una bottiglia di champagne nella festa dei partiti laici per la vittoria dei divorzisti nel referendum del 12 e 13 maggio. Un referendum che avrebbe dovuto svolgersi già nel 1972 ma che la prudenza laica di Forlani aveva rinviato di due anni, a costo delle elezioni anticipate. Nel 1974 invece Fanfani non esitò a guidare la campagna referendaria per il sì all’abrogazione della legge Fortuna-Baslini, deputati rispettivamente del Psi e del Pli, e perse malamente.

I numeri di quella sconfitta di Fanfani assomigliano tanto terribilmente quanto casualmente a quelli di Renzi nel referendum del 4 dicembre scorso sulla riforma costituzionale. In particolare, l’allora segretario della Dc perse col 40,74 per cento dei sì contro il 59,26 per cento dei no all’abolizione del divorzio. I sì a Renzi per la conferma della riforma del bicameralismo e altro sono stati pari al 40,88, i no alla conferma pari al 59,12 per cento. Incredibile ma vero. Ho appena verificato i dati.

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Seguii per Il Giornale appena fondato da Indro Montanelli, che uscì col suo primo numero proprio quel 25 giugno 1974, la riunione della direzione democristiana. Il titolo lo volle fare lo stesso Montanelli, che aveva simpatie personali per Fanfani, e anche qualche motivo di riconoscenza per essere stato da lui aiutato a reperire il finanziamento della sua avventura editoriale dopo la rottura col Corriere della Sera. Ma al referendum da buon laico Indro aveva votato per il divorzio.

Dirò di più. L’imbarazzo di Montanelli era tale che l’arrivo del Giornale nelle edicole fu programmato apposta per il 25 giugno, dopo più di un mese dal referendum sul divorzio, per non partecipare in alcun modo alla campagna referendaria con cronache, commenti e quant’altro.

Il titolo di testa della prima pagina col quale Montanelli vestì il mio pezzo sulla direzione democristiana fu questo: “Fanfani conta amici e nemici”. Lo fece -mi confidò- dopo avere avvertito un po’ di “vertigini” nel seguire l’elenco e la descrizione che nell’articolo avevo fatto delle correnti e sottocorrenti con le quali il segretario della Dc doveva fare i conti per resistere all’offensiva politica dopo la botta referendaria. Che peraltro, con somma ipocrisia, nessuno nel partito gli contestava formalmente, preferendo rimproverargli altro. Il pretesto di quella riunione, in particolare, fu l’estromissione appena decisa di Carlo Donat-Cattin dalla giunta esecutiva del partito.

Sotto l’aspetto della trasparenza le cose con Renzi, rispetto agli anni di Fanfani, si possono considerare migliorate. Non è poco, l’ammetto. Ma la situazione rimane ugualmente pesante e intricata. Le correnti del Pd sono quasi il doppio di quelle democristiane. Il Corriere della Sera ne ha appena contate undici in quella che ancora sarebbe sulla carta la sofferente maggioranza renziana, e almeno quattro nella minoranza.

Il povero Montanelli, che prima di morire aveva fatto in tempo a tornare al suo Corriere, dopo avere prima venduto e poi perduto davvero il suo Giornale, quando Silvio Berlusconi decise di usare il polso dell’editore per estrometterlo, non avrebbe avvertito solo qualche capogiro nel leggere l’articolo descrittivo della mappa correntizia del Pd. Avrebbe forse dato proprio giù di stomaco.

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L’appuntamento di Fanfani con la direzione democristiana di quel lontano 25 giugno 1974 si concluse con un compromesso: il solito compromesso di cui i leader della Dc erano specialisti. Fanfani fu lasciato al suo posto non perché gli altri ne avvertissero la insostituibilità, o il carisma. Figuriamoci. Fu lasciato al suo posto per convenienza. In particolare, perché i suoi critici o avversari erano consapevoli che la botta referendaria sul divorzio  aveva provocato uno smottamento politico di proporzioni enormi. E preferirono cinicamente lasciare gestire al segretario ormai ammaccato anche i difficili passaggi che attendevano il partito. Essi decisero, cioè, di fargli bere sin in fondo l’amaro calice di quella sconfitta. Toccò pertanto a lui gestire l’anno dopo le elezioni regionali e amministrative che segnarono la forte avanzata del Pci di Enrico Berlinguer, alimentando la speranza o la paura, secondo i gusti, del sorpasso comunista sullo scudocrociato. “Per voi è finita”,  ci gridarono al microfono della redazione romana del Giornale, in Piazza di Pietra, alcuni giovanotti reduci dal saluto che Berlinguer in via delle Botteghe Oscure aveva appena fatto ai militanti in festa del suo partito per i risultati elettorali.

Fu dopo le elezioni locali del 1975 che Fanfani venne allontanato dalla segreteria del partito, assegnata al moroteo Benigno Zaccagnini. E l’aretino si conquistò il diritto al premio di consolazione costituito dal ritorno alla presidenza del Senato.

Renzi, che è più giovane e conosce i suoi polli, mi sembra invece deciso a resistere. Che Iddio gliela mandi buona.

Matteo Renzi, Renzi, Pd

Matteo Renzi, la direzione Pd e Amintore Fanfani

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