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Il prossimo 4 dicembre gli italiani avranno l’ultima parola sulla scelta politica espressa dal Parlamento lo scorso aprile con l’approvazione della riforma costituzionale. È un bene e, quale che sarà l’esito della consultazione, la democrazia in Italia non smetterà di funzionare, ma potrà funzionare meglio o peggio. E mentre finora la discussione pre-referendaria si è in larga parte concentrata sulle conseguenze della novella costituzionale sulla cosiddetta forma di governo, non molto si è detto o scritto dell’impatto che tale modifica avrà sulla forma di Stato, ossia sulla distribuzione del potere tra gli enti costitutivi della Repubblica. A questo riguardo, tre sono i principali temi emendativi della riforma.

In primo luogo, sono soppresse le previsioni costituzionali relative alle province, quale ente costitutivo della Repubblica. Si tratta di una presa d’atto dell’indirizzo politico emerso almeno negli ultimi 15 anni, nel quasi totale accordo delle forze politiche succedutesi alla guida del Paese, che ha avuto un epilogo con la legge  Delrio, attraverso la quale le Province sono state di fatto abolite: le loro funzioni sono state assoggettate a un riordino da parte delle Regioni, hanno acquisito la nuova qualificazione di enti di area vasta, e mutato ne è il sistema elettorale, più aderente al loro carattere di residualità e caducità. Residuali perché funzionano se e in quanto delegate dalle Regioni, e ove non si sovrappongano a Comuni e Città metropolitane. Caduche per espressa previsione della legge in questione, che con norma programmatica ne richiama la soppressione da parte di legge costituzionale. La riforma costituzionale completa questo percorso, sopprimendo definitivamente le Province, e con ciò aggiunge chiarezza nella catena di governo del territorio, oltre che qualche risparmio: l’Istituto Bruno Leoni, centro studi non tacciabile di simpatie filogovernative, nel 2014 stimava un potenziale beneficio per il bilancio pubblico consolidato di 1,8 miliardi conseguente alla totale abolizione delle Province.

La seconda scelta fondamentale della riforma consiste nel ridimensionare le competenze legislative regionali, abolendo la materia concorrente tra Stato e Regioni e introducendo una clausola di supremazia, in base alla quale la legge statale – su proposta del governo – può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva, quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero a tutela dell’interesse nazionale. Si può discutere se questo indirizzo di riforma sia desiderabile secondo le proprie personali preferenze in fatto di federalismo, regionalismo e, in genere, in materia di distribuzione del potere sul territorio.

Ma una cosa è certa. Sono decenni che la giurisprudenza costituzionale interviene per ridimensionare la potestà legislativa regionale in nome degli interessi nazionali non frazionabili. E sono decenni che il ruolo delle Regioni – più che sulle competenze legislative – si gioca, come avviene peraltro in molti altri sistemi, sulla cooperazione e sulla negoziazione – pre e post-legislativa – nell’ambito della conferenza Stato-Regioni, che di fatto ha già agito, in questi anni, come terza camera occulta. La riforma registra questi mutamenti in un’ottica di manutenzione straordinaria, avvicinando le norme alla realtà dei fatti e colmando alcune lacune che la giurisprudenza costituzionale non poteva colmare.

Abbinata alla riforma del Senato, pone le condizioni perché le regioni possano ordinariamente far sentire la propria voce nell’elaborazione della legislazione nazionale attraverso un processo di partecipazione più ordinato e trasparente di quello finora adoperato. Il successo di questa operazione dipenderà poi dalla politica, più che dalla Costituzione, e da come essa qualificherà il proprio apporto all’interno della camera alta. Perché se da un lato questa riforma toglie alle Regioni garanzie formali, al contempo le sfida a un ruolo più maturo e proattivo, se ne saranno capaci. E ciò viene confermato anche dal terzo elemento distintivo della riforma del Titolo V, le nuove previsioni sul cosiddetto regionalismo differenziato. La riforma rimodula l’ambito delle materie nelle quali possono essere attribuite particolari forme di autonomia alle regioni ordinarie e facilita il processo di delega da parte dello Stato. Non serve più, infatti, la necessaria iniziativa della Regione per innescare il procedimento legislativo aggravato; inoltre, la legge di delega deve essere approvata dalle due Camere a maggioranza semplice e non assoluta, fermo restando la necessità dell’intesa tra lo Stato e la regione interessata. Ma, e qui sta secondo me l’elemento chiave del nuovo testo, viene introdotta una nuova condizione per l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, essendo necessario che la regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio. In definitiva, le Regioni godranno di molti strumenti costituzionali e buoni presupposti politici per definire il proprio ruolo all’interno dell’ordinamento, a condizione di esercitarlo con responsabilità politica e finanziaria.

La direzione della riforma sembra dunque chiara anche in relazione al delicato assetto dei poteri territoriali, e non c’è dubbio che essa chiama innanzitutto le Regioni a una maggiore responsabilità, dopo gli eccessi degli ultimi 20 anni. L’alternativa sarebbe tenersi i carrozzoni burocratici che tristemente conosciamo.

Giovanni Guzzetta (Docente di Diritto costituzionale presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata)

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Referendum costituzionale, così si fa chiarezza tra Stato e Regioni

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