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“Credo che gli Stati Uniti non possano concedersi il lusso di focalizzare la propria attenzione solo su alcuni dei pericoli che minacciano l’Occidente e tralasciare gli altri, dall’ingerenza russa nella regione artica sino all’instabilità che attanaglia il Mediterraneo e l’area MENA”. Parola di Barry Pavel, senior Vice President e Director del Scowcroft Center on International Security presso l’Atlantic Council di Washington, che Formiche.net ha incontrato a Roma. Ecco la conversazione.

Dr. Pavel, alla luce delle molteplici sfide che gli Stati Uniti e l’Europa si troveranno ad affrontare nei prossimi anni, quali sono le priorità di maggiore interesse per l’Atlantic Council?

Personalmente credo che la priorità più importante sia rappresentata dalla necessità per l’Unione Europea e la NATO di adattarsi a un mondo in continuo cambiamento. La storia di entrambe le istituzioni ha dimostrato una costante capacità di evolversi e rispondere alle esigenze di un mondo in trasformazione. Oggigiorno i Paesi della NATO e dell’Unione Europea si trovano ad affrontare molteplici minacce.  Da una prospettiva atlantica, credo che gli Stati Uniti non possano concedersi il lusso di focalizzare la propria attenzione solo su alcuni dei pericoli che minacciano l’Occidente e tralasciare gli altri, dall’ingerenza russa nella regione artica sino all’instabilità che attanaglia il Mediterraneo e l’area MENA. Siamo ormai costantemente sottoposti a nuovi rischi: è probabile che con il passare degli anni sarà necessario adottare una prospettiva più dinamica e in grado di far fronte alle trasformazioni in corso. Ogni rischio può essere letto come un’opportunità di cambiamento ed evoluzione. La NATO e l’Unione Europea dovranno sforzarsi per cogliere quest’opportunità e adattarsi alle sfide future.

Il recente intervento all’Atlantic Council del Ministro degli Affari Esteri italiano, Angelino Alfano, è stato principalmente focalizzato sull’idea di un approccio più forte alle sfide comuni che interessano il Mediterraneo. Quale evoluzione vede per quest’area del mondo? Vi sono possibilità per l’Italia di vedere riconosciuta la propria leadership nel promuovere la pace e la stabilità nell’intera regione?

Il Brent Scowcroft Center on International Security ha recentemente realizzato un report con l’obiettivo di individuare i diversi fattori che stanno condizionando il bacino del Mediterraneo e che causano incertezza per il futuro. Vi è una notevole diversità di interessi a guidare i diversi attori, statuali e non statuali, all’interno della regione. Credo che vi sia un’enorme opportunità di leadership per l’Italia, all’interno dell’Alleanza Atlantica, nel gestire le tante sfide, minacce e opportunità che vengono dal sud dell’Europa: dal controllo dei flussi migratori all’instabilità in Medioriente e Nord Africa. La Nato può giocare un ruolo fondamentale nel supportare le popolazioni locali attraverso le proprie istituzioni, in maniera tale da ridurre la minaccia terroristica e l’estremismo islamico. La conoscenza approfondita di questa parte del mondo, la posizione geografica e diversi altri fattori rendono l’Italia un attore indispensabile e questa è una delle ragioni per cui l’Atlantic Council ha fatto tappa a Roma, non per la prima volta, e ritornerà in Italia in futuro. L’Italia può avere un ruolo davvero essenziale, una vera e propria leadership nell’affrontare sfide importantissime per gli Stati Uniti. Vivremo un cambio generazionale senza precedenti, almeno per quanto riguarda il Medioriente, e a questo proposito vorrei fortemente raccomandare la lettura di alcuni report realizzati all’Atlanti Council sotto la guida di Madeleine K. Albright e Stephen J. Hadley. Da queste analisi è particolarmente visibile l’importanza della sfida che viene dall’intera area MENA.

La nuova amministrazione USA sembra essere concentrata sulla lotta al terrorismo e meno sensibile verso una strategia di lungo termine per stabilizzare l’area MENA. Trova che questa impressione sia corrispondente alla realtà? L’Europa dovrebbe sforzarsi di cercare una propria – autonoma – posizione nel guardare al Medioriente e al nord Africa?

Non credo che l’Europa debba approntare da sola strategie di stabilizzazione che guardino al lungo periodo. Per quanto riguarda l’amministrazione USA, credo che vi sia ancora bisogno di tempo. Ad oggi vi sono ancora numerose caselle vuote nei vari Dipartimenti e – sebbene sia consapevole del fatto che il mondo non possa attendere le nuove nomine – non giudicherei come definitive le posizioni assunte sinora dall’amministrazione. Per esempio, ancora non sappiamo cosa verrà fuori dal confronto tra il Segretario alla Difesa, James Mattis, ed il presidente Trump. Su questi temi Mattis vanta una forte influenza sul presidente e proprio in questo momento è in corso una revisione delle policy su cui ci stiamo confrontando. Non credo vi siano ancora i presupposti per giudicare come definitive le posizioni assunte dall’amministrazione Trump. Si pensi anche solo al cambiamento di opinioni sulla NATO, che è passata dall’essere prima definita come qualcosa di obsoleto e poi un’alleanza essenziale per gli Stati Uniti.

Come giudica la presenza crescente delle forze militari russe in numerose aree di conflitto? Questo nuovo attivismo rappresenta un rischio per l’occidente o – più semplicemente – la Russia si propone come nuovo attore globale nella lotta al terrorismo?

Non sono mai stato accusato di essere diplomatico e non lo sarò ora. Il giorno in cui la Russia annunciò l’invio di truppe in Siria, ormai diverso tempo fa, dichiarai pubblicamente che sarebbe stato solo ed esclusivamente per difendere il regime di Assad. Lo credo ancora. Tutto ciò che la Russia ha fatto sino a oggi rafforza il mio convincimento. L’Atlantic Council ha da poco rilasciato un report intitolato “Breaking Aleppo”, che dimostra in dettaglio che la Russia e le forze armate siriane hanno ripetutamente colpito un ospedale ad Aleppo, non con il proposito di combattere i terroristi dell’Isis ma con l’obiettivo di colpire un numero elevato di civili. Continuo a credere che la presenza russa in quel conflitto sia destabilizzante e possa creare seri danni per la popolazione siriana.

La celebrazione dei trattati di Roma cade in un momento particolarmente complicato per l’Unione Europea: la Brexit, i movimenti populisti e le tensioni economiche rappresentano un grande rischio per il processo d’integrazione. Vi è ancora speranza di invertire questa tendenza? Gli Stati Uniti potrebbero trarre beneficio da un’Europa più debole?

Gli Stati Uniti non possono avere alcun beneficio da un’Europa debole. Gli USA possono trarre beneficio da un’Europa più forte e integrata, che possa continuare a svolgere il ruolo di partner essenziale. Questo vale sia per le sfide domestiche che per le sfide da affrontare nelle altre parti del mondo; mi riferisco al Medioriente ma anche all’Asia. Sul punto sono ottimista e credo che quest’opportunità possa essere presa per dimostrare ai cittadini europei, che al momento nutrono un certo malumore, che anch’essi possono trarre beneficio da un’Unione stabile e integrata. Trovo un’evidente similitudine con quanto è accaduto alle ultime elezioni negli Stati Uniti, dove una quantità di elettori si è dimostrata assai scontenta circa le politiche degli ultimi venti anni, troppo incentrate sulla globalizzazione e sulla crescita economica. Credo che questo sentimento sia presente anche in Europa e che possa portare ad una ricalibrazione delle priorità e delle policy sinora adottate, così da meglio rispondere alle prerogative di larga parte della popolazione. Si tratta di una vera e propria opportunità per dimostrare ai cittadini quanto preziosa possa essere l’Unione Europea.

La vittoria di Trump alle presidenziali può essere correlata all’affermazione dei movimenti populisti e nazionalisti in Europa?

Non credo vi sia una correlazione diretta. Non penso sia possibile ricondurre alla vittoria di Trump l’affermazione dei movimenti populisti e del malcontento che essi rappresentano. Credo piuttosto che un argine serio a questi movimenti possa essere rappresentato dall’adozione di politiche strutturate in materia di immigrazione e su tanti altri temi che hanno generato malcontento tra la popolazione europea. Una strategia di lungo termine per gestire i flussi migratori, ad esempio, potrebbe avere un valore essenziale sotto questo punto di vista.

Uno degli hashtag più utilizzati nel corso degli eventi all’Atlantic Council è “stronger with allies”. Si tratta di un messaggio diretto all’amministrazione USA e agli altri partner NATO per ricordare il ruolo essenziale di questa istituzione? Qual è il futuro della NATO? E’ davvero destinata a perdere il proprio ruolo cruciale nel proteggere i valori di libertà e sicurezza?

Sono molto ottimista circa la capacità della NATO di affrontare le sfide presenti e future. Utilizziamo questo hashtag poiché crediamo sia tempo di rinnovare la conversazione sull’Alleanza Atlantica, non solo a Washington ma con tutti i cittadini americani. E’ passato troppo tempo da quando la NATO era avvertita come essenziale nella vita di tutti i giorni. Credo che, eccetto per coloro che lavorano in questa istituzione, molti americani pensino che la NATO sia legata al passato. I nostri programmi su questo tema sono rivolti ai cittadini americani affinché si parli della NATO, anche per capire quali potrebbero essere gli aspetti da migliorare e da implementare al fine di proteggere la sicurezza del nostro paese. Sono convito che la comunità dei think tank a Washington debba cambiare il proprio approccio a queste tematiche e all’Atlantic Council stiamo perseguendo una strategia finalizzata a supportare il cambiamento.

Qual è il rapporto tra la comunità dei think tank di Washington e l’amministrazione Trump?

Partiamo da un dato di fatto: vi è un elevatissimo numero di nuovi funzionari posti in posizioni di grande rilievo. La maggior parte di questi funzionari guarda con assoluto favore all’apporto costruttivo dei think tank su tante tematiche di interesse collettivo. Nella mia esperienza posso dire che, come già accaduto per le precedenti amministrazioni, i membri dell’Atlantic Council porteranno avanti un confronto di grande spessore con i funzionari dell’amministrazione Trump, per aiutarli nel lavoro che sono chiamati a svolgere. Come negli altri think tank, il nostro compito è aiutare il governo a svolgere i propri compiti nel miglior modo possibile. Credo proprio che l’Atlantic Council accrescerà la propria importanza nel corso dell’amministrazione Trump.

La nuova amministrazione USA sta bilanciando la propria strategia globale, focalizzandosi prevalentemente su un approccio “domestico”. In ogni caso, come diversi analisti hanno sottolineano, “America first non significa America sola”. Gli USA continueranno a guardare al Pacifico e a cercare una strategia di contenimento verso la Cina?

Credo sia ormai chiaro che “America first” non voglia significare un disimpegno generalizzato da tutti i quadranti d’interesse per gli USA. Questo sarebbe incoerente con la volontà di proteggere le famiglie e l’economia americana. Restare a casa e rinunciare all’impegno nel mondo sarebbe un passo falso. Gli Stati Uniti hanno sempre affrontato le proprie sfide in maniera non isolazionista. Questo vale anche per la presente amministrazione; basti pensare ai viaggi verso il continente asiatico ed europeo da parte dei vertici dell’amministrazione Trump. L’impegno globale è nella vita stessa degli Stati Uniti come nazione.

Per quanto riguarda la proiezione verso il Pacifico, è difficile fare anticipazioni poiché parliamo di qualcosa che ancora non è stato definito in dettaglio. Se, però, guardiamo alle politiche degli ultimi trent’anni, sarà facile notare che in ogni governo vi sia stata una naturale propensione ad occuparsi del Pacifico. Quasi ogni amministrazione ha pianificato o posto in essere il cosiddetto “pivot to Asia”: si tratta di un trend globale che sta caratterizzando le policy USA ormai da diverso tempo. Questo, però, non vuol dire che Trump debba ignorare il Medioriente o l’Europa. Ciò che dobbiamo fare è lavorare con i nostri partener e alleati in tutte le regioni e affrontare tutte le sfide e le opportunità che caratterizzano le tre regioni richiamate.

L’Europa può avere un ruolo nelle politiche USA verso il Pacifico?

Credo che al momento le potenzialità dell’Europa siano davvero sottovalutate. L’Europa potrebbe svolgere un ruolo essenziale in questa partita, anche sotto il profilo del contenimento della potenza cinese. L’Europa potrebbe avere un peso enorme ed è per questo motivo che all’Atlantic Council stiamo inaugurando un nuovo filone di ricerca focalizzato sull’Asia/Pacifico e l’obiettivo fondamentale dei nostri studi sarà portare i nostri alleati e partner verso un maggiore impegno nel rapporto con quella parte di mondo. E’ ormai finita l’era in cui le sfide atlantiche erano confinate all’Atlantico e la sfida cinese era confinata all’Asia. Parliamo di problematiche globali che vanno affrontate con approccio globale.

Mediterraneo, Atlantico, Pacifico… quale sarà l’oggetto di maggiore attenzione per l’amministrazione Trump?

Mi piacerebbe poter scegliere! Colgo l’occasione per un aneddoto… quando il presidente Obama annunciò il pivot to Asia, dichiarai scherzosamente: “Sarebbe fantastico se il Medioriente collaborasse e stesse tranquillo per qualche anno, mentre realizziamo il nostro pivot to Asia”. Il mondo non sta ad aspettare che gli Stati Uniti definiscano le loro priorità. Capisco che nell’elaborare una strategia si debbano fissare delle priorità ma in tutte le regioni vi sono enormi fattori d’interesse e di pericolo da considerare. Non credo, allora, che sia possibile fissare un focus o un ordine di priorità. Tutte le regioni debbono essere tenute in considerazione e tutti i nostri partner vanno ingaggiati su più scenari. Per esempio, pochi giorni fa dall’Arabia Saudita è partita una delegazione di tutto rispetto per una visita istituzionale in Asia: c’è grande connettività oramai in tutti i settori, incluso quello dell’energia. Le interconnessioni non possono essere ignorate.

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