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La priorità della Turchia è cambiata: se appena un anno fa l’obiettivo era quello di un regime change imprescindibile in Siria, scalzando dal potere Bashar el Assad, ora Ankara punta i curdi. Combatterli e creare zone di influenza, tanto in Siria, dove le milizie Ypg (alleate americane nella lotta al Califfato) sono tra gli obiettivi di una missione militare diretta dall’esercito turco, quanto in Iraq, dove si sono rifugiati gruppi del Pkk, i combattenti curdo-turchi che sono la matrice per cui la Turchia considera anche i cugini siriani gruppi terroristici e nemici odiatissimi. La stabilità interna supera le mosse sugli Esteri: combattere i curdi in Siria, infatti, significare bloccare le ambizioni stataliste della minoranza etnica che a colpi di vittorie contro lo Stato islamico s’è guadagnata il controllo di un’ampia fetta di territorio e ha iniziato la costruzione fattuale del sognato Rojava. Dimostrazione: tra le condizioni di una road map per pacificare il conflitto siriano, Ankara avrebbe incluso la richiesta di aiuto ai russi per eliminare “il Pkk dalla Siria” (per i turchi le Ypg non sono altro che l’emanazione del Pkk) e avrebbe abbozzato sulla permanenza al potere di Assad nella futura fase di transizione.

La scorsa settimana lo Stato islamico ha diffuso alcune immagini riguardanti la battaglia di Al Bab, che i baghdadisti stanno combattendo contro un gruppo misto di soldati delle forze speciali turche e fazioni ribelli che segue i comandi di un’operazione che il governo di Recep Tayyp Erdogan ha battezzato con il nome evocativo ‘Scudo dell’Eufrate’ (perché intende riportare tutto il territorio siriano a ovest del fiume Eufrate sotto il controllo più o meno diretto della Turchia). Una scelta dove si mischiano circostanze di opportunità, ma anche un pericoloso “revival ottomano”. In un set di immagini si vedono alcuni mezzi militari turchi distrutti dai missili anticarro che il Califfato ha rubato all’esercito siriano, in un altro video sono ripresi due militari dei Berretti Marroni turchi bruciati vivi: un atto atroce che è insieme un segno di sfida e provocazione verso Erdogan. Contemporaneamente i baghdadisti hanno anche diffuso immagini che riprendevano i danni dei bombardamenti turchi che avevano centrato anche i civili, calcando la linea propagandistici degli “stranieri che uccidono i fedeli” (pure se Erdogan è alla guida di un regime islamico, viene considerato un traditore infedele nei video messaggi dell’Is).

Un’altra risposta alla domanda implicita “che cosa sta facendo la Turchia ad Al Bab” l’ha data l’editorialista del Daily Sabah (linea molto presidenziale) Negehan Alci che dice in soldoni: perché dovremmo permettere agli altri che il conflitto siriano crei una situazione ostile alla Turchia? Alci sostiene che attualmente gli Stati Uniti “si sono completamente ritirati dal gioco”  in Siria, e questo permette ad Ankara di attuare una politica “brillante” (della linea presidenziale si diceva): in pratica la missione in Siria non solo avrebbe creato le basi per bloccare i nemici, ma ha pure aperto la strada per costruire un’opposizione al regime di Damasco “amica” e più potabile di quelle attuali, dato che chi combatte con l’esercito turco è più o meno certificato come gruppo non jihadista. Un qualcosa da usare in futuro. D’altronde i gruppi di ribelli siriani più intransigenti vedono la Turchia come nemica, non fosse altro per quello che è successo ad Aleppo, una quarantina di chilometri a sud di Al Bab, dove Ankara ha permesso alla Russia assidista di riconquistare la città, facilitando lo sgombero della città. Su Aleppo Ankara ha giocato il ruolo di “utile idiota” digerendo senza troppi sforzi le condizioni forzate dai russi (e dagli iraniani), e dunque se non fosse per la propaganda, far passare questi giorni in cui si annuncia una soluzione del conflitto siriano per mano turco-russo-iraniana come una vittoria sarebbe difficile. Anche il progetto di partizione per aree di influenza è per certi versi un surrogato di un successo: controllare una fetta di nord della Siria non sarà come aver sostituito Assad con un presidente “più amico”, ma è l’unico modo per braccare i curdi.

Però c’è Al Bab: cartina di tornasole che lassù ci sia qualcosa che si muove sotto le traiettorie note è l’Iran. L’accordo stretto inizialmente tra Russia e Turchia per l’evacuazione di Aleppo prevedeva che alcuni allepini fluissero verso nord, ossia verso quelle aree controllate militarmente dall’operazione Scudo e amministrate dagli “amici” dei turchi. Poi Teheran è intervenuto, chiedendo che i ribelli venissero spostati verso Idlib, chiudendo la rotta nord: a Idlib sono i gruppi jihadisti come l’ex al Nusra a controllare la città, e questo rende tutto più facile per descrivere i ribelli come terroristi. Anche per questo pare che Ankara stia lavorando per discernere alcune fazioni “più moderate” e portarle verso di sé, al nord. Oppure è possibile che certe analisi pubblicate su media come il Daily Sabah siano soltanto un richiamo per mantenere il consenso anche tra chi, nella Turchia presidenziale, non ha appoggiato la linea presa in fretta dal governo sulla Siria. Un giornalismo a ricaduta interna al quale la Mezzaluna ci ha abituato da tempo, funzionale a mantenere il più alta possibile la popolarità del presidente.

Che cosa sta facendo la Turchia ad Al Bab, nel nord siriano?

Di Marta Ottaviani e Emanuele Rossi

La priorità della Turchia è cambiata: se appena un anno fa l'obiettivo era quello di un regime change imprescindibile in Siria, scalzando dal potere Bashar el Assad, ora Ankara punta i curdi. Combatterli e creare zone di influenza, tanto in Siria, dove le milizie Ypg (alleate americane nella lotta al Califfato) sono tra gli obiettivi di una missione militare diretta…

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