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Nel suo appello finale agli elettori nella piazza di Filadelfia, dove ha chiuso la campagna elettorale insieme con Barack Obama, Hillary Clinton ha usato la frase-mantra di Papa Francesco: “Costruiamo ponti e non muri”. Difficile dire se la Clinton ha “abusato” di questo slogan, perché non si  usa una frase del genere a poche ore dall’apertura dei seggi elettorali, senza  chiedere il “permesso” al copywriter. Oppure no, se è stata solo una coincidenza. Il fatto resta. Una indiretta sconfitta diplomatica per la Santa Sede (e non solo di Papa Francesco).

Naturalmente, il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, ha subito assicurato al nuovo Presidente Trump le sue preghiere affinché “il Signore possa illuminarlo e aiutarlo nel suo servizio della sua Patria” e ma anche “nel servizio del benessere e della pace nel mondo”. Eppure, queste affermazioni sono state precedute da una fredda premessa protocollare che la dice tutta sul mood della Santa Sede che si è registrato subito dopo l’elezione di Trump: “Prendiamo nota con rispetto della scelta espressa dal popolo americano”, ha commentato laconico Parolin, a margine dell’inaugurazione del nuovo Anno Accademico dell’Università lateranense. Durante il suo intervento, Parolin ha ammesso che la diplomazia papale “dovrà trovare nuove formule” nel nuovo contesto globale.

Il Papa (che ieri durante l’udienza generale del mercoledì non ha in alcun modo commentato l’elezione), in febbraio, ritornando dal viaggio in Messico, aveva dichiarato rispondendo ad una domanda sul tycoon: “Chi costruisce mura non è un cristiano”. Poi c’è stata una messa a punto. Il Papa, tuttavia,  ha fatto un commento simile anche durante lo scorso weekend, a due giorni dal voto presidenziale americano, cioè durante la Conferenza dei Movimenti popolari ricevuti in Vaticano, dove ha ancora messo in guardia dalla paura e dalla costruzione dei muri.

Quanto al muro con il Messico, Parolin ha detto che per giudicare bisogna attendere. Bisogna cioè sospendere il giudizio e vedere quali saranno le scelte concrete di Trump, visto che si dice sempre “una cosa è essere il candidato un’altra cosa è essere il Presidente, cioè colui che ha la responsabilità”. Un’osservazione che sottolinea però una differenza di approccio rispetto ai mesi passati, anche in relazione ad almeno due scelte diplomatiche vaticane di gran peso sfuggite alla maggioranza degli osservatori, nella loro relazione alle imminenti elezioni presidenziali.

La prima decisione (sicuramente approvata da Parolin) è stata l’iniziativa del nunzio apostolico negli Stati Uniti, Christopher Pierre, di celebrare una messa al confine con il Messico il 23 ottobre 2016, cioè a 15 giorni dalle elezioni, proprio sul limite della cancellata di sicurezza che divide i due Paesi.

La seconda è stata la nomina a cardinale (nel prossimo concistoro del 20 novembre, ma annunciata il 9 ottobre) dell’arcivescovo di Indianapolis, Joseph Tobin, che il 10 ottobre scorso ha sfidato il divieto del governatore Mike Pence (cioè il numero due di Trump e oggi il vicepresidente degli Stati Uniti eletto)  di far stabilire in Indiana i rifugiati siriani.

Lunedì 7 novembre inoltre il Papa ha destinato Tobin a Newark, come una specie di alter ego (le due diocesi confinano, e Newark non era mai stata sede cardinalizia) del cardinale di New York,  Timothy Dolan, considerato troppo conservatore, forse proprio in previsione di una vittoria di Hillary.

Dopo l’elezione di Trump, Tobin ha twittato senza nessun riferimento al nuovo Presidente, citando Paolo che “ci invita a pregare per i re e per tutti coloro che hanno posizioni di autorità perché possano condurre una vita tranquilla e quieta, in ogni pietà ed onestà”.

Tutte le fibrillazioni tra Vaticano e Donald Trump

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