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Continua, cauta ma costante, la marcia di avvicinamento di Eugenio Scalfari verso il sì referendario alla riforma costituzionale. Una marcia assecondata con astuzia da Matteo Renzi consultando il fondatore di Repubblica, che se n’è vantato, nei passaggi più difficili della lunga campagna elettorale, com’è avvenuto alla vigilia della riunione della direzione del Pd. Dove è nata la decisione, molto apprezzata da Scalfari, di affidare ad una commissione rappresentativa delle minoranze del partito il compito di mettere a punto una proposta di modifica della contestata legge elettorale della Camera da sottoporre agli altri partiti, e discutere in Parlamento dopo il referendum del 4 dicembre.

Ma Scalfari, pur dichiarandosi modestamente solo un giornalista, si sente un po’ attore anche di quel che accade nel Pd, per cui ha voluto consultare, o farsi consultare anche da Gianni Cuperlo, che forse è stato da lui incoraggiato a rappresentare le minoranze nella commissione. Un consulto, quello con Cuperlo, che dal racconto fattone ai lettori di Repubblica dallo stesso fondatore mi sembra concluso bene, per quanto in pubblico l’ex presidente del Pd faccia ancora lo scontroso, dopo avere annunciato, o minacciato, che si dimetterebbe da deputato se l’accordo dovesse mancare e lui fosse costretto a schierarsi definitivamente per il no referendario alla riforma della Costituzione.

Potremmo attribuire, alla fine di questa vicenda, l’eventuale unità del Pd, o di gran parte del Pd, al netto degli irriducibili, che non mancano in nessuna famiglia, ad un lodo Scalfari, anche se la storia della sinistra italiana consiglia su questa strada una certa prudenza.

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Ricordo i giorni, anzi le ore convulse dopo la strage di Capaci, dove la mafia era riuscita nel 1992 a far saltare in aria le auto che portavano dall’aeroporto di Palermo a casa sua il magistrato e alto dirigente del Ministero della Giustizia Giovanni Falcone, la moglie e la scorta. Nel Parlamento, fermo da parecchie votazioni e manovre di corridoio per l’elezione del nuovo capo dello Stato, dopo le dimissioni leggermente anticipate del picconatore Francesco Cossiga, si avvertì il bisogno di chiudere rapidamente la partita del Quirinale come “risposta” alla destabilizzazione rappresentata dalla strage di mafia.

Già accantonata per rinuncia dell’interessato la candidatura dell’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani, azzoppato nelle urne di Montecitorio dai “franchi tiratori” del suo stesso partito e del Psi di Bettino Craxi, fu cestinato anche il tentativo dell’allora presidente del Consiglio uscente, Giulio Andreotti, di mettersi in corsa, nonostante i suoi amici avessero concorso all’azzoppamento di Forlani. I maggiori partiti decisero che la scelta dovesse essere “istituzionale”, limitata ai due presidenti in carica delle Camere: il democristiano Oscar Luigi Scalfaro a Montecitorio e il repubblicano Giovanni Spadolini a Palazzo Madama.

Il povero Spadolini, peraltro presidente supplente della Repubblica, essendo dimissionario quello uscente, era tanto sicuro di farcela da avere predisposto una bozza di discorso d’insediamento: quello che si fa dopo avere giurato davanti alle Camere in seduta congiunta. A dargli la certezza della vittoria, oltre alla prassi dell’alternanza al Quirinale fra un democristiano, qual era l’uscito Cossiga, e un laico, c’era la sponsorizzazione proprio di Scalfari, che si riteneva molto influente a sinistra. Forse troppo però, perché il segretario dell’allora Pds-ex Pci, Achille Occhetto, s’impuntò dicendo all’assemblea congiunta dei deputati, senatori e delegati regionali del suo partito che non potevano farsi dettare la linea “da fuori”. E fu pollice verso a Spadolini, anche per i vantaggi pratici che ne sarebbero derivati al partito degli ex o post-comunisti. L’elezione di Scalfaro al Quirinale avrebbe infatti liberato la presidenza della Camera per Giorgio Napolitano, rimediando così al vulnus col quale si era aperta, dopo le elezioni di aprile, la nuova legislatura: l’esclusione della sinistra dai vertici parlamentari.

Posso testimoniare personalmente che Spadolini si consolò subito. Fattisi i conti anagrafici, scoprì che alla scadenza del mandato presidenziale di Scalfaro, eletto con una sola votazione, egli avrebbe avuto la stessa età del presidente uscente della Camera, per cui poteva ben candidarsi –mi disse- alla successiva edizione della corsa al Quirinale.  L’uno era nato in effetti nel 1918, l’altro nel 1925, sette anni dopo: esattamente quanto dura l’incarico di capo dello Stato. Grandissimo e simpaticissimo Spadolini, al netto delle sfuriate di cui era capace contro collaboratori e amici che non lo capivano al volo.

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Fra i motivi del progressivo avvicinamento di Scalfari al sì referendario alla riforma costituzionale non c’è soltanto la fiducia riposta in un accordo credibile sulla modifica della legge elettorale nota come Italicum, che nella versione attuale –è tornato ad avvertire il fondatore di Repubblica– farebbe diventare “non un pericolo ma una realtà l’autoritarismo” attribuito a Renzi dai suoi critici ed avversari.

A giocare a favore di Renzi c’è anche la convinzione maturata da Scalfari, in caso di vittoria del no referendario e della conseguente “fine della carriera” politica dell’ex sindaco di Firenze, che “un nuovo segretario non porti alcun danno al partito”, ma un nuovo presidente del Consiglio possa danneggiare l’Italia “soprattutto a livello europeo”. Dove –ha scritto Scalfari- ci sarebbe soltanto un uomo capace di riscuotere fiducia al di là e al di qua dell’Atlantico: Enrico Letta. “Ma il guaio è –ha scritto Scalfari- che è alquanto difficile che Letta ottenga una maggioranza dei voti in Parlamento”, dal quale peraltro si è dimesso per fare il professore di politica a Parigi, pur pensando forse di potersi così predisporre furbescamente per un ritorno, favorito anche dalla cautela con la quale si è sottratto in questi giorni alla canizza antirenziana. In particolare, egli ha annunciato il suo sì alla riforma costituzionale, per quanto non condivisa del tutto.

Renzi intanto si è varata la sua legge di stabilità finanziaria, ma un po’ anche referendaria, si prepara all’incontro di commiato da Barak Obama alla Casa Bianca, martedì prossimo, portandosi appresso anche Roberto Benigni, e ci fa simpaticamente tornare indietro di 34 anni riproponendo la combinazione fra “meriti e bisogni” che segnò, con un brillantissimo discorso dell’allora vice segretario Claudio Martelli, la conferenza programmatica del Psi a Rimini, sotto questo titolo: “Come governare i cambiamenti”.

Questo ritorno a Martelli, e a Bettino Craxi, farà dire a Bersani, sempre criticamente, che Renzi “va dove lo porta il cuore”, a destra o a una sua variante, come i comunisti di una volta consideravano il Psi del garofano.

Tutti gli slalom di Matteo Renzi fra Italicum, Legge di bilancio e Scalfari

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