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L’altra notte, mentre la televisione raccontava il cambiare del vento e i commentatori richiamavano le prese di posizione più hard di Donald Trump sulla società e l’economia, ho ripensato al contratto da 1.8 miliardi di dollari firmato pochi giorni prima dalla società USA Argo Lng con i cinesi della Honghua Group. Honghua, la principale società di ingegneria oil and gas della Cina, costruirà in due-tre anni una piattaforma dotata di quattro moduli di liquefazione del gas naturale al largo nel Golfo del Messico, con una capacità produttiva di 3 milioni e 600 mila tonnellate di GNL. Ma è molto più di una commessa, si tratta del primo impianto di liquefazione le cui principali componenti saranno pre-fabbricate e poi trasportate e installate sulla piattaforma, dove potranno approvvigionarsi navi gasiere in un range da 30.000 a 260.000 metri cubi di metano liquido (flessibilità che costituisce una altra grande innovazione).

Si tratta di novità ingegneristiche che abbatteranno i costi di produzione del GNL offshore in concorrenza con gli impianti a terra, in particolare con quello texano di Sabine Pass, dell’americana Cheniere, che pochi mesi fa ha clamorosamente aperto al gas la rotta USA-Cina via stretto di Panama, reso possibile dal recente allargamento del canale. Allora, gas naturale americano a basso costo destinato alle industrie e ai consumatori cinesi da un impianto costruito dagli stessi cinesi in acque americane. Spiazzate le tradizionali esportazioni del Qatar e altri dal Golfo arabo verso il Pacifico (e le australiane). Il gas naturale pesa nel mix energetico cinese per il 6%, contro una media mondiale nel 2015 del 24%. Il gas naturale serve alla Cina perché è sinergico allo sviluppo delle fonti rinnovabili ed è il fossile meno inquinante. Ne hanno tantissimo anche loro ma non riescono ancora ad estrarlo.
Per questo il mercato cinese del gas naturale sarà nei prossimi anni il più importante al mondo, e di gas naturale gli USA ne hanno così tanto che non sanno più cosa farci. L’iper protezionista Trump, che ha promesso di fermare le importazioni dalla Cina, bloccherà questo contratto?

Mi sono dilungato su questo esempio per sottolineare la più importante e rivoluzionaria decisione economica, e non solo, viste le conseguenze, presa dall’Amministrazione Obama. Una innovazione che ha cambiato, forse per sempre, e vedremo perché, il mercato energetico mondiale. Obama ha permesso l’esportazione delle materie prime energetiche americane, vietate fin dagli anni ’70, all’epoca delle grandi crisi petrolifere, quando la produzione nazionale non stava più dietro ai consumi ed era necessario iniziare ad importare.

Da allora giacimenti nazionali come riserva strategica e blocco delle esportazioni. Poi grazie all’innovazione tecnologica, dal 2005 gli USA hanno rilanciato la propria produzione e sono iniziate le pressioni per poter esportare. Obama d’accordo da subito, resistenze durissime dei repubblicani in Congresso, proprio quelli culturalmente, ideologicamente, più vicini a Trump. Alla fine Obama ce l’ha fatta (e con lui la massa dei piccoli produttori, famiglie, non solo le grandi compagnie). In quel momento il rallentamento dell’import e la previsione della libertà di esportazione ha fatto crollare i prezzi mondiali di gas naturale e petrolio. Nel mondo petrolifero è arrivato il mercato. I prezzi hanno iniziato a muoversi in base alla domanda e all’offerta, non in base a decisioni prese a Riad. La guerra dei prezzi al ribasso scatenata dall’Arabia Saudita nel 2014, per reagire alla decisione di Obama e cercare di buttare fuori mercato i produttori americani ha portato il petrolio da 120 dollari dove stazionava tranquillamente, agli attuali 40/50.

Riad pensava che i produttori americani avrebbero lasciato il tavolo con il petrolio a 80-90 dollari, gli ingegneri invece hanno fatto efficienza (cosa alla quale fino ad allora nessuna compagnia aveva mai pensato seriamente) ed hanno resistito fino ai 50 dollari. Adesso questa soglia è il tetto al prezzo: se sale oltre riparte la produzione USA e torna a scendere. E’ già un anno che avanti così. Vittima incolpevole di questa rivoluzione la Russia, che non fa parte dell’OPEC ma che ha sempre vissuto all’ombra delle strategie di prezzo arabe. La crisi economica russa di questi anni è tutta lì, nel crollo dei ricavi da petrolio e gas su cui si regge buona parte del bilancio statale. Ed impressiona guardare la coincidenza tra andamento al ribasso del prezzo del petrolio e l’aumento delle iniziative militari della Russia all’estero.

Che farà il conservatore e nazionalista Trump? Lascerà le cose come stanno o cercherà di rallentare o fermare l’export USA di petrolio e gas? Fermerà il liquefatore Honghua-Argo? E se blocca davvero le importazioni di prodotti cinesi o di altri, di qualsiasi cosa si tratti, perché questi paesi esportatori non dovrebbero mettere dei dazi sulle importazioni energetiche? Il risultato sarà lo stesso, fermare le esportazioni USA. Certo i prezzi internazionali risalirebbero (per il petrolio, non per il gas, la produzione USA sarebbe supplita da Australia e Canada a prezzi di mercato) e il Trump amico di Putin farebbe alla Russia certo un grande favore, ma per le compagnie americane (e le famiglie che posseggono pezzetti di giacimenti) sarebbe un disastro.

Con i prezzi attuali regge solo chi può lavorare sulle quantità, e i dazi riguarderebbero certamente anche le vendite da giacimenti extra territoriali, se di compagnie USA. Una guerra mondiale di dazi sui prodotti energetici (ma quello dell’OPEC cos’era se non un grande dazio?) è un film da incubo ed è imprevedibile, ma lo era anche l’elezione di Trump! E’ sicuro, anche se difficilmente lo sapremo mai, che nel prossimo incontro tra Trump e Putin il prezzo del petrolio sarà al primo posto nell’agenda, molto sopra, ma molto connesso, alle crisi siriana, ucraina, libica, etc.
Adesso non possiamo che aspettare, ma se nei prossimi giorni sentiremo Trump dire che il prezzo del petrolio è troppo depresso, o vedremo l’americana Argo rinunciare al rigassificatore off shore della Honghua, rileggete queste righe.

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