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E se fosse Italiexit? I danni per il nostro Paese sarebbero enormi, insostenibili. Ma allo stesso tempo all’Europa non conviene che l’Italia abbandoni la zona euro: perché se accadesse la probabilità di un beak-up della moneta unica sarebbe altissima. Sono le conclusioni a cui giunge il team di ricerca di Mediobanca Securities capitanato da Antonio Guglielmi (nella foto).

Ma partiamo dall’inizio. Innanzitutto, si è molto acuita la paura degli investitori che l’Italia abbandoni la moneta unica. Lo dimostra l’indice Sentix che stima la probabilità dell’uscita dell’Italia dall’unione monetaria a un anno sulla base della valutazione degli investitori. “L’indice – scrive Guglielmi – è balzato al 19% nel novembre 2016 prima di scendere lievemente al 15%. Questo rispetto alla media del 2,5% tra il 2012 al primo semestre 2016 segnala l’aumento delle preoccupazioni del mercato circa un’Italexit che è emerso alla fine dello scorso anno dato il rischio sistemico percepito sulle banche e alla luce del voto di protesta decisivo per la vittoria del no al referendum costituzionale”.

La produttività del lavoro italiano segna un divario del 20% rispetto a Germania e Francia e questo gap deriva da tre periodi: “Il 1979, quando l’Italia entrò nello Sme con un limite di oscillazione della valuta di +/- 6%; il 1989, quando entrò a far parte della forchetta più stretta di +/- 2,25%; e il 1996, quando l’Italia rivalutò la sua moneta dell’8% per rientrare Sme prima di ancorare la Lira all’Euro”, spiega il report. La mancanza di sovranità monetaria, la stretta dei tassi Usa, il tapering della Bce, gli ostacoli normativi sulla detenzione di titoli di Stato da parte delle banche e la crescita sommessa del PIL sono tutti elementi che suggeriscono che “l’attuale costo di finanziamento all’1,5% d’Italia è destinato a salire e potenzialmente influenzare gli oltre 200 miliardi di euro in titoli di stato da rifinanziare nel 2017. Il calendario elettorale dell’Ue dall’esito imprevedibile aggiunge ulteriore incertezza”.

Insomma, il costo della ridenominazione rischia di essere salato. Quanto? La perdita stimata da Mediobanca è di 280 miliardi di euro. Un piccolo passo indietro: un decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze n. 96717 del 7 dicembre 2012 stabilì che, a partire dal 1° gennaio 2013 le nuove emissioni di titoli di Stato aventi scadenza superiore ad un anno sarebbero state soggette alle clausole di azione collettiva (CACs). Di cosa si tratta? Di clausole che consentono di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali dei bond statali e a cui, secondo i calcoli di Mediobanca, sottostanno circa 902 miliardi di euro di bond, la metà del totale emesso dal Paese.

Dall’altro lato, circa i due terzi del debito italiano è detenuto in casa da istituzioni domestiche, il che dovrebbe rendere la ridenominazione di più facile gestione. “La ridenominazione in qualsiasi Paese della zona euro – continua il report di Mediobanca – è funzione di questi due parametri. Per quantificare la potenziale magnitudine del problema, la nostra analisi si focalizza su quattro elementi: oltre ai 902 miliardi sotto il regime Cac, 48 miliardi in titoli di stato sotto giurisdizione estera per cui non è consentita alcuna ridenominazione; i 210 miliardi detenuti dalla BCE ai sensi del QE e non soggetti ad alcuna condivisione del rischio; e 151 miliardi derivati ​​del debito pubblico che contengono 37 miliardi di perdita. Supponendo il 30% di svalutazione sulla nuova moneta, o 2 volte il differenziale di inflazione cumulato tra l’Italia e la Germania dall’adesione all’euro, il risultato sono 280 miliardi di perdite”.

Insomma l’Italia sta seduta su un punto di neutralità tra ciò che guadagna grazie alla Lex Monetae e ciò che perde con i Cac. “Sulla base delle nostre stime – continua Mediobanca – la migrazione verso questo regime tra il 2013 e il 2016 ha lasciato il paese con 932 miliardi di bond che potrebbero beneficiare dalla Lex Monetae, che consente i pagamenti del debito in una nuova (svalutata) valuta. Tale porzione di debito consentirebbe di cristallizzare un guadagno di 191 miliardi in caso di ridenominazione”. Che non sono sufficienti. “Stimiamo che entro il 2022 tutti i titoli di stato saranno sotto il regime Cac, trasformando ogni anni 30/40 miliardi di guadagno in perdita. Ciò significa un costo della ridenominazione di 381 miliardi nel 2022 rispetto a un potenziale guadagno di 285 miliardi al 2013, prima dell’introduzione del Cac. Il tempo costa all’Italia in termini di costi di ridenominazione. Perciò da un lato comprendiamo i timori degli investitori per una Italiaexit, in quanto la mancanza di crescita e l’alta disoccupazione rappresentano forti incentivi a godere di sovranità monetaria. Dall’altro lato motivi meramente finanziari riducono il rischio Italexit: è già troppo tardi per beneficiare di un ridenominazione, che da adesso in poi costerebbe al Paese. Questo anche prima di sommare all’equazione 672 miliardi di debito, che renderebbero il conto persino più salato”.

C’è un ultimo indice che usa Mediobanca per valutare l’improbabilità di un’uscita dell’Italia dall’euro, ed è il Quanto. Si tratta di uno spread che cattura il “rischio di convertibilità” implico nel premio tra Cds denominati in dollari e Cds denominati in euro. Il Quanto contiene informazioni importanti tra la probabilità di default di una nazione dell’Eurozona, la decisione di quella nazione di lasciare la moneta unica ed eventualmente la probabilità di un break-up dell’euro.
“I nostri dati suggeriscono che a fine 2016 per la prima volta in Italia lo spread Quanto a cinque anni dell’Italia ha superato quello della Spagna, confermando il ruolo cruciale che l’Italia gioca per il futuro della zona euro dato una correlazione del 90% che abbiamo trovato tra la probabilità di Italexit e la probabilità di un break-up dell’euro”. Insomma, i motivi per non andarsene sono diversi. E c’è da scommettere che, anche nella remota ipotesi che l’Italia provi a uscire, l’Europa farà di tutto per trattenerla.

germania,

Perché l'Italiexit conviene a nessuno (anche in Europa). Report Mediobanca

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