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Da qualche settimana è disponibile (www.liberilibri.it) una nuova edizione di “L’uomo contro lo Stato” di Herbert Spencer, curata e magistralmente introdotta da Alberto Mingardi, il direttore e animatore dell’Istituto Bruno Leoni.

Questa non vuole essere una recensione: sarei troppo “fazioso” a favore del valore del testo in sé, e anche della rara sensibilità del curatore e prefatore, per come riesce a curvarsi su un grande classico, accompagnando il lettore dal passato verso l’attualità. Piuttosto, se riesco, mi permetto alcune minime annotazioni a margine, stimolate dalla lettura.

Mingardi rende benissimo l’evoluzione negli anni del pensiero di Spencer: più cose affidi allo Stato, più decisioni deleghi alla mano pubblica, più riduci il libero dispiegarsi delle scelte e delle preferenze individuali, più – in ultima analisi – finisci per deprimere lo stesso progresso collettivo, la stessa efficacia delle politiche pubbliche, senza il “beneficio” e il “plus” che sarebbe apportato da un più vasto spazio di decisione e di autodeterminazione dei singoli.

Spencer sembra non scrivere centocinquant’anni fa, ma …stamattina. E il caveat su come i parlamenti e le procedure democratiche rischino di sostituirsi al re nel produrre il medesimo effetto immobilista e conservativo è un monito di assoluta e bruciante attualità. Ma davvero possiamo fidarci di una “pan-normazione”, di un intervento legislativo su tutto, di un pervasivo sforzo di regolamentazione di ogni aspetto della vita? È fatale che norme nate così nascano vecchie (inseguono la realtà ma fatalmente non la raggiungono mai), si risolvano in un modo (più o meno consapevole) di ostacolare e sgambettare qualcuno (a beneficio o no di altri), e finiscano per essere una gabbia che imbriglia il dinamismo sociale e economico.

Ha ragione da vendere Mingardi quando rilancia e rimette a fuoco questi principi, e ci induce ad almeno tre riflessioni per l’oggi.

La prima: nella complessità del tempo in cui viviamo, far decidere meno cose allo Stato potrebbe essere anche un modo per sdrammatizzare gli eventi politico-elettorali, per ridurre l’impatto degli shock indotti dalla fragilità delle nostre democrazie. Se lo Stato decidesse meno cose e controllasse una parte molto più piccola del Pil, gli eventi della politica perderebbero il loro carattere di “giudizio divino”.

La seconda: occorre più umiltà e meno dogmatismo ideologico. Serve una maggiore propensione all’empirismo, sia pur nutrito di idealità e principi liberali. Deve essere certo l’approdo, ma occorre flessibilità sul tragitto per arrivarci, imparando e via via adattandoci alle condizioni e alle variabili lungo il cammino. “Learn and adapt”, se ne siamo capaci.

La terza. I liberali devono (ri)conquistare, nel nostro Occidente avanzato, la capacità di restituire il senso profondo (starei per dire: morale) di alcune scelte. Non bastano i “dettagli” e le cifre o i buoni programmi, e non basta neppure avere un approccio “quantitativo” (di quanto riduciamo le tasse, di quanto tagliamo la spesa, ecc) se non ci sforziamo di persuadere gli altri delle ragioni “qualitative” (e umane, e umanistiche, e liberatorie, e liberanti!) che militano a favore di una più vasta scelta da parte di ogni singola persona, su tutto.

Siamo usciti da un secolo in cui tanta parte della storia è stata determinata da (e in nome di) entità collettive, in genere minacciosamente scritte con la maiuscola: Stato, Partito, Sindacato, e così via. Forse è venuto il tempo (pur in un ambiente ostile e oscuro, in un’era di incertezza e di incognite) di diffondere un seme diverso: quello – come spartiacque culturale e politico – del necessario allargamento della sfera della decisione individuale e privata, e della conseguente restrizione della sfera della decisione pubblica e collettiva.

Come Alberto Mingardi ha riletto Spencer

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