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Le piattaforme dei partiti sono ancora rilevanti nelle elezioni americane? Sì, in particolare quest’anno, in cui si assiste a una radicalizzazione delle elezioni che ha portato a candidature estreme come quelle di Bernie Sanders e Donald Trump.

Le differenze fra i candidati, nei decenni scorsi, non erano così profonde – su molti temi convergevano verso il centro – e un linguaggio così virulento non si manifestava dal 1800. Il populismo istrionico di Trump e la campagna di Hillary Clinton, stretta fra l’eredità di Obama e la necessità di differenziarsi da lui, rendono queste elezioni una partita imprevedibile, che si giocherà su un pugno di voti. È quanto emerso dall’incontro di ieri “I programmi dei candidati Usa 2016”, al Centro Studi Americani, organizzato in collaborazione con il Cispea (Centro Interuniversitario di Storia e Politica Euro-Americana).

“Le differenze fra le due piattaforme cominciano dal preambolo – ha spiegato Daniele Fiorentino, docente di Storia Americana all’Università degli Studi Roma Tre – dove i partiti definiscono la propria idea degli Stati Uniti, il ruolo internazionale e la politica interna. I Repubblicani hanno posto l’accento sull’eccezionalismo americano, sulla convinzione di essere diversi da qualsiasi altra nazione sulle Terra e su richiami alla famiglia, alla patria e ad altri valori tipicamente conservatori; mentre i democratici recitano frasi come: la cooperazione è meglio del conflitto, siamo più forti se stiamo uniti, per fare economia tutti devono partecipare, ciascuno con il suo reddito”.

I membri delle commissioni di entrambi gli schieramenti hanno dovuto accettare, per andare incontro alle istanze di chi era al vertice, i colpi di testa di Trump da un lato e le rivendicazioni di Bernie dall’altro.

“Se i democratici hanno inserito le richieste di Sanders (lavoro, disoccupazione, riconoscimento dei redditi minimi, per esempio), Trump raccoglie temi repubblicani e li radicalizza fino a un punto in cui lo stesso establishment non vuole spingersi”, ha sottolineato Maurizio Vaudagna, dell’Università del Piemonte Orientale. “Ha radicalizzato un linguaggio machista e di white supremacy che aliena fasce molto significative – donne e minoranze, queste ultime rappresentano un terzo dell’elettorato – senza il cui voto non si vince. I repubblicani per questo sono molto preoccupati, perché ha diviso il paese anziché unificarlo sotto una piattaforma repubblicana”.

Trump si trova chiuso in una contraddizione difficilmente risolvibile: da una parte il suo è il partito delle élite economiche neoliberali e dall’altra parte fa un discorso radicalizzato contro big government e big money. Assume alcuni tratti contrastanti e altri che lo accomunano alla tradizione repubblicana: “Era il candidato impossibile, come Reagan, che però veniva dall’interno del partito. Come Reagan, poi, Trump conduce una campagna di opposizione il cui scopo non è esporre i punti di un programma in modo sistematico. È piuttosto una campagna di contrasto a Clinton e Obama, di cui vede Hillary come erede e l’ideologia del politically correct come espressione di quell’eredità”, ha spiegato Vaudagna.

Anche Hillary Clinton si trova davanti a un dilemma: deve fronteggiare l’imprevedibilità di Trump, che in un dibattito può spiazzare l’avversario con sortite scorrette, e deve differenziarsi dalla Casa Bianca, pur facendone parte – sia per la linea di continuità con il marito, sia per la responsabilità della politica estera attuata finora – come ha sottolineato Roberto Menotti, dell’Aspen Insitute: “La globalizzazione è stata guidata dagli Stati Uniti, almeno all’inizio, e ora viene anche subita dall’America. Il clima psicologico del paese crea un’altra difficoltà per i democratici, perché questo candidato deve essere ottimista e progressista – soprattutto di fronte al pessimismo attuale di Trump e alla sua visione vaga di un futuro brillante – ma deve farlo nella continuità”. Lei, sconfitta alle primarie del 2008, deve convincere che gli anni di Obama sono stati positivi, ma che lei potrà far meglio.

Il nodo principale della sua campagna adesso, più che spostare voti, è far votare i suoi elettori naturali, “a fronte della vittoria di Obama al secondo mandato, ottenuta con quattro milioni di voti in meno rispetto al mandato precedente e a una mancata ristrutturazione del partito, da parte dell’attuale presidente. Non c’è una scelta di priorità nelle scelte di policy nel partito democratico, basti pensare che nel sito di Hillary Clinton i punti del programma sono in ordine alfabetico. La partita si gioca al centro”, ha detto Antonio Funiciello, consigliere alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

A 50 giorni dal voto, di sicuro c’è solo che un’elezione così incerta non si vedeva da tanto tempo.

Tutti i dilemmi di Hillary Clinton e Donald Trump

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