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Il presidente americano Barack Obama ha ordinato l’estensione per un altro mese dei bombardamenti sulla Libia contro lo Stato islamico. La missione, iniziata il primo agosto, aveva una durata prevista di trenta giorni, ma, visto che ancora Sirte, la capitale libica del Califfato, non è stata liberata, la Casa Bianca il primo settembre ha comunicato la decisione sul prolungamento della missione (a cui è stato dato il nome di “Odyssey Lightning”).

Non è un grosso insuccesso per Washington, sebbene sia i comandanti americani sia i libici sul campo annunciavano da subito che Sirte sarebbe caduta in poco tempo (“questione di giorni”). Era prevedibile che i raid aerei si potessero prolungare, quanto meno per gestire la fase di transizione dopo la liberazione, che comunque non c’è stata ancora, sebbene da un paio di settimane se ne annuncia l’imminenza day by day. Adesso ci risiamo, giovedì è partito l’assalto al cosiddetto Quartiere 3, dove gli ultimi baghdadisti restano asserragliati, ormai senza speranze, in una difesa delle posizioni che porterà all’atteso martirio e alle successive celebrazioni. Dunque hanno poco da perdere e combatteranno fino alla fine, incastrati tra il mare alle spalle e le bocche di fuoco delle milizie misuratine della campagna Bunyan al Marsous davanti. Tra domenica scorsa e lunedì, per esempio, in altri di quei giorni che dovevano segnare l’assalto finale e la riconquista definitiva, i misuratini hanno riportato cinquanta morti e un paio di centinaia di feriti, facendo crescere il bilancio a 470 miliziani libici uccisi e più di duemila feriti. Erano partiti in seimila, ora sono rimasti in tremila, decimati dalle trappole esplosive che infestano Sirte, dai contrattacchi kamikaze e da azioni che arrivano dall’esterno della cerchia cittadina e che fanno presupporre che al di là della resistenza in quell’ultimo quartiere, lo Stato islamico in Libia ha ancora una presenza operativa.

Eppure Sirte è la testimonianza che tutto sommato la strategia ibrida pensata dagli Stati Uniti per contrastare lo Stato islamico sta funzionando, anche se ha debolezze. Americani e alleati mettono i bombardieri, i droni che seguono dall’alto i movimenti dei nemici e qualche consulente a terra, i locali piazzano gli stivali sul terreno. Questo tipo di offensiva è la stessa diretta verso le altre due capitali statuali dell’IS: ha permesso di liberare il nord siriano dall’occupazione militare del Califfato (e, quando rallenteranno le ingerenze dei turchi, si dovrebbe lanciare verso Raqqa, la capitale de facto del Califfato), e sta portando l’esercito iracheno verso Mosul (ultimo step, la liberazione di Qayyarah, città sul Tigri a cinquanta chilometri dal luogo in cui Abu Bakr al Baghdadi proclamò due anni fa il Califfato).

Se il sistema militare, nonostante una campagna arrivata ormai al quinto mese (a dispetto delle previsioni iniziali), procede, l’aspetto politico è in stallo completo. Fayez Serraj, il premier che dovrebbe guidare il paese secondo i progetti e gli accordi chiusi da Onu e nazioni occidentali a dicembre del 2015, non ha il consenso politico necessario e richiesto proprio da alcune complicate regole inserite in quegli stessi accordi per non scontentare nessuno degli attori locali. Ossia, per tener conto del fatto che ad est c’è un corpo politico-militare che si semplifica giornalisticamente nella figura del generale freelance Khalifa Haftar (“self-styled savior” lo chiama Bloomberg, con una delle migliori definizioni degli ultimi tempi), ma che sottintende l’aperto appoggio egiziano ed emiratino (e indirettamente quello dell’Arabia Saudita), quello clandestino della Francia, e quello ancora più subdolo della Russia, che sulla crisi libica si muove senza scoprire troppo le carte. Il parlamento orientale, di sede a Tobruk, che ha l’ambizione di legiferare sul paese (e dunque su tutti gli asset economici, dal Fondo sovrano ai pozzi petroliferi) perché l’ultimo eletto, avrebbe dovuto votare la fiducia a Serraj nell’ambito del processo di rappacificazione nazionale, ma, dopo mesi di assemblee saltate per mancanza del quorum, quando il 22 agosto ha raggiunto un numero congruo di partecipanti lo ha invece sfiduciato, o meglio – visto che non è un primo ministro e di fiducia non ne ha mai goduto, dunque non gliela si può togliere – ha recepito negativamente la lista dell’esecutivo proposta dal futuro premier. Un’imboscata che ha minato la costruzione del Gna, l’acronimo con cui si definisce il governo sotto egida Onu (Government of National Accord). L’inviato delle Nazioni Unite per gestire la crisi, il tedesco Martin Kobler, non ha potuto fare altro che raccogliere i cocci della votazione di Tobruk e chiedere a Serraj di lavorare su una nuova proposta da sottoporre in fretta ai politici della Cirenaica.

Giovedì Serraj, dopo quattro mesi di attesa, ha nominato il comandante e i due vice della Guardia presidenziale (hanno discendenza regionale, per ampliare il corpo, una sorta di esercito composto da miliziani ficini al Gna riciclati in via ufficiale, a tutta la Libia). Mercoledì per cercare di ottenere il consenso popolare che ancora non si porta appresso, il futuro primo ministro è andato a Sirte. Nel più orientale dei suoi spostamenti da quando è in Libia (se entrasse in Cirenaica lo arresterebbero forse, o peggio) ha visitato il centro Ouagadougou, l’ex quartier generale dello Stato islamico nella città costiera, ha incontrato i comandanti sul campo, sostenendo che “la battaglia all’Isis è un simbolo di unità ed è un progetto che coinvolge tutti” i libici. Solo che quelli dell’est non combattono e sono concentrati in pratiche regionali a Bengasi e Derna (città da annettere sotto la dittatura militare che guida la Cirenaica simil-egiziana, in cui rimangono sacche di resistenza), e quelli che fanno parte del suo blocco politico-militare senza l’appoggio straniero sarebbero rimasti invischiati in un ancor più sanguinoso stallo. Le cose vanno meglio a Sirte che a Tripoli: nel golfo centro-orientale la guerra a giorni dovrebbe finire sul serio (anche se l’IS non sarà del tutto sconfitto), mentre quella per chi avrà il potere in Libia durerà ancora a lungo.

Fayez Serraj, Libia, trenta

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