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Il recente viaggio in Europa di Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare Cinese, ha acceso i riflettori sullo stato dei rapporti, politici ed economici, tra la superpotenza cinese e i paesi del Vecchio Continente. Il viaggio ha reso così plasticamente visibile come gestire in ordine sparso i rapporti con la Cina da parte dei leader europei, nell’illusione di far valere in proprio i rispettivi interessi nazionali, non porti a grandi risultati, a meno che, come nel caso dell’Ungheria, non ci si presti con l’opportunismo e il cinismo abituale di Orban a giocare da free rider a scapito dei valori e degli interessi europei, facendo del proprio paese una piattaforma per la penetrazione politica ed economica cinese nel continente europeo.

Tra le illusioni che i leader europei dovrebbero finalmente mettere da parte, c’è senz’altro quella che Xi metta una parola buona per frenare l’aggressività dell’amico Putin, cosa che non avverrà mai perché è del tutto evidente che il regime cinese ha tutto l’interesse che la guerra in Ucraina vada avanti ad oltranza, e che semmai la Cina dovesse un giorno intervenire per metter fine a quella guerra lo farebbe se la Russia fosse sul punto di collassare, circostanza questa che al momento appare assai improbabile, o quantomeno lontana nel tempo.

Altrettanto improbabile è che Xi Jinping faccia davvero qualcosa per ridurre quei global imbalances, ovvero quegli squilibri macroeconomici a livello globale che sono riemersi prepotentemente da circa un anno a questa parte e che hanno nella Cina il driver principale. Si tratta del rapido aumento del surplus commerciale cinese, da qualcuno già battezzato il secondo China shock (dove il primo China shock è stato quello dovuto al rapido aumento della quota cinese nel commercio mondiale che ha fatto seguito all’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del bommercio nei primi anni del secondo millennio).

Se infatti la capacità di mantenere un alto tasso di crescita economica resta per il regime di Pechino un potente fattore di legittimazione agli occhi della propria popolazione, in questa fase l’espansione dell’attivo commerciale è tornata ad essere essenziale per la Cina per sostenere la crescita del proprio Pil, evitando che scenda sotto il 5% annuo. Dopo la crisi finanziaria globale del 2008-09, a cui aveva fatto seguito prima una caduta e poi una lenta ripresa della domanda mondiale, il commercio internazionale non poteva più essere come in passato per la Cina la leva principale con cui conseguire alti tassi di crescita del Pil, anche per il peso che l’economia cinese aveva ormai raggiunto nell’economia mondiale.

Il governo cinese aveva quindi varato a ripetizione dei massicci programmi di stimolo, che avevano negli investimenti pubblici in infrastrutture la loro componente più rilevante. La loro efficacia nel sostenere la crescita è apparsa però soggetta alla legge dei rendimenti decrescenti, mentre il rapido aumento dell’indebitameno del settore pubblico ha limitato la possibilità di continuare a farne sistematico uso. Agli investimenti pubblici si era affiancato come driver della crescita cinese il boom immobiliare, a cui contribuivano con ruoli diversi imprese di costruzione, enti pubblici locali, finanziatori e famiglie, sottoposte queste ultime a repressione finanziaria e pertanto più che disponibili a investire i loro risparmi in case, fino al punto in cui il settore immobiliare è arrivato a rappresentare più di un quarto dell’intero PIL cinese.

Lo sgonfiarsi della bolla immobiliare ha provocato una rapida contrazione di questo settore, contribuendo non poco a quell’aumento della capacità produttiva inutilizzata che riguarda molti settori industriali, risultato di tassi di investimento ormai inconcepibilmente alti per un’economia che ha raggiunto il livello di sviluppo della Cina, a cui fanno da pendant elevatissimi tassi di risparmio aggregato. All’origine di tutto questo c’è la mancata o solo molto parziale realizzazione di quel “ribilanciamento della crescita” che la Cina si era riproposta più di dieci anni fa, e che comporterebbe spostare domanda dagli investimenti e dall’export verso i consumi pubblici (quali quelli di un moderno sistema di welfare, che alla Cina ancora manca) e soprattutto verso quelli privati.

A sua volta, ciò implicherebbe riallocare risorse e reddito attualmente controllate dal governo centrale e da quelli locali, direttamente o indirettamente tramite banche e grandi imprese fortemente sussidiate, verso le famiglie e le piccole imprese. Ciò renderebbe la crescita meno squilibrata e più sostenibile, ma inevitabilmente la rallenterebbe, vanificando l’ambizione di Xi di fare in pochi anni della Cina l’economia egemone a livello globale. Inoltre un ribilanciamento di questo genere richiederebbe l’allentamento della presa autoritaria dello stato-partito sulla società (e sull’economia), cosa che certamente non è nei programmi dell’attuale leadership cinese.

Non è quindi sorprendente che, dopo la fine della pandemia di Covid-19, il mix di sovracapacità produttiva e lenta ripresa dei consumi delle famiglie cinesi, che hanno subito il duplice shock dei durissimi lockdown a cui sono state sottoposte durante la pandemia e della crisi immobiliare, ha generato impulsi deflattivi che hanno riguardato soprattutto i prezzi alla produzione dei beni industriali, malgrado l’aumento dei prezzi mondiali dell’energia (sebbene va tenuto presente che la Cina può sfruttare le forniture di energia a prezzi di favore da parte di stati-canaglia sottoposti a sanzioni come l’Iran e la Russia), determinando un deprezzamento del tasso effettivo di cambio reale dello yuan di circa il 14% nell’arco degli ultimi due anni.

Grazie a questa caduta dei prezzi dei propri prodotti, la Cina sta inondando i mercati mondiale (in volume il suo export è cresciuto dal marzo 2022 ad oggi del 10%). I nodi irrisolti dello sviluppo cinese costituiscono quindi un problema per il resto del mondo, sia per le economie avanzate che per quelle emergenti, a cui la Cina sta sottraendo quote di domanda per i beni manifatturieri.

Ci sono però due importanti differenze con il primo China shock: 1) a differenza che all’inizio degli anni duemila, la Cina è competitiva anche per prodotti a tecnologia avanzata, in particolare per alcuni di quelli essenziali per la transizione verde, quali le auto elettriche, le batterie e i pannelli solari;

2) la Cina è oggi assai più assertiva che a inizio millennio sul piano geopolitico, e ha mostrato anche di recente in più occasioni che non esita ad utilizzare il commercio internazionale per intimidire e punire i paesi che non assecondano le sue ambizioni geopolitiche, in particolare quelle relative a Taiwan.

I Paesi europei dovrebbero tener realisticamente conto di quanto sopra e regolarsi di conseguenza nell’impostare i propri rapporti economici con la Cina. Questo in particolare vuol dire:

a) non chiudersi a quei prodotti in cui i cinesi hanno acquisito un vantaggio tecnologico su quelli europei, ma imporre loro, se vogliono venderli in Europa, che vengano a produrli in loco, facilitando così il trasferimento in Europa di tecnologie innovative sviluppate in Cina (come suo tempo hanno fatto i cinesi con le imprese occidentali);

b) smetterla di negoziare su base bilaterale le questioni commerciali nell’illusione di strappare qualche “sconto” tariffario per l’accesso dei propri prodotti al mercato cinese, ma lasciare che sia esclusivamente l’Unione Europea a trattare per tutti;

c) rivedere al più presto vincoli e scadenze riguardanti la transizione verde che l’Ue si è autoimposta, quale il divieto alla vendita di veicoli con motori a combustione interna a partire dal 2035, che darebbe modo ai cinesi di sfruttare appieno sul mercato europeo il vantaggio competitivo acquisito nella filiera dell’auto elettrica, con effetti autolesionistici sull’industria automotive europea in cambio di benefici minimi in termini di riduzioni di emissioni di gas a effetto serra a livello globale;

d) investire per eliminare o quantomeno ridurre la dipendenza dell’Europa dalla Cina per materie prime stategiche quali ad esempio le terre rare.

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