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Dev’essere doloroso il digiuno degli sciacalli. Lo si capisce dalla delusione, anzi dal livore con cui i giustizialisti in servizio permanente effettivo hanno accolto l’assoluzione dell’ex governatore leghista del Piemonte Roberto Cota, deriso e condannato invece sulle piazze per la storia delle “mutande” verdi acquistate – si disse – a spese dei cittadini.  Con uguale delusione e livore hanno reagito alla decisione della Procura di Roma di chiedere l’archiviazione delle indagini a carico di 116 persone coinvolte dalle deposizioni di Salvatore Buzzi e di Massimo Carminati nella vicenda giudiziaria chiamata Mafia Capitale.

Lo scandalo per i critici e i protestatari, in quest’ultimo caso, non sta tanto nella richiesta di archiviazione quanto nel fatto che per una volta i nomi dei 116 indagati sono rimasti segreti sino alla fine degli accertamenti disposti dagli inquirenti e alla decisione di chiedere il proscioglimento.

Come mai e perché – si sono chiesti gli sciacalli – costoro hanno potuto risparmiarsi la sorte generalmente riservata ad ad altri, che nel momento in cui finiscono sotto indagine approdano nei titoli e nelle cronache giornalistiche? Il fatto che fra questi privilegiati, ai quali la sorte ha riservato nient’altro che l’applicazione una volta tanto corretta delle norme del codice di procedura penale, ci siano il governatore della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il presidente del Consiglio regionale Daniele Leodori, entrambi del Pd, ha reso le proteste più risentite. E gli umori più neri contro il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, del quale molti si sono ricordati l’occasione colta in un convegno promosso proprio dal Pd per dare a suo tempo l’annuncio che stavano maturando nei suoi uffici grosse iniziative giudiziarie. Che presero poi il nome di Mafia Capitale. La cui vicenda l’allora sindaco Ignazio Marino cavalcò con imprudenza, visto che sarebbe stata destinata ad anticipare anche la fine della sua avventura capitolina, fra accuse, sospetti, contraccuse, dimissioni reclamate, rifiutate, poi annunciate, poi ancora ritirate, in una sequenza più comica che politica.

Lo stesso Marino finì indagato per una storia di scontrini relativi a spese sospette di ristoro con la carta di credito del Comune. Per fortuna il procedimento si è appena chiuso a suo favore con l’assoluzione, che gli ha dato la possibilità di processare a sua volta in una conferenza stampa il suo partito, difesosi sostenendo di averlo detronizzato non per gli scontrini ma per incapacità.

La vicenda giudiziaria di Marino ha comunque confermato l’obbrobrio dei processi mediatici che si fanno col solito rito sommario all’annuncio delle sole indagini e vengono smentiti sempre troppo tardi dai processi veri, quelli che si svolgono nei tribunali. Era un processo mediatico anche quello cui si era aggrappato l’ex sindaco di Roma per puntellare la sua posizione politica e indebolire gli avversari, interni ed esterni al Pd. Proprio lui rimandò “nelle fogne da cui provengono i fascisti” del suo predecessore Gianni Alemanno, accusato di mafia e poi rimasto nel processo per altri reati, meno gravi.

Se mi chiedete di fare i nomi di questi sciacalli rimasti una volta tanto a digiuno con quei 116 entrati e usciti indenni dalle indagini di Mafia Capitale – sciacalli che ora sperano che il giudice competente a decidere sulle richieste di archiviazione della Procura restituisca loro brandelli di carne su cui buttarsi – non vi posso seguire perché ne ho abbastanza di noie giudiziarie per l’esercizio della mia professione. Vi posso solo dire che questa categoria abietta ormai è politicamente trasversale, da destra a sinistra: a volte per vocazione, altre volte per ritorsione, altre volte ancora per bieche lotte politiche dentro e fuori casa: uno spettacolo ormai vomitevole.

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Costretto a imbastire solo processi mediatici, non potendo più promuoverne di veri per avere lasciato la magistratura, Antonio Ingroia si è esercitato sulle pagine del Fatto Quotidiano contro Matteo Renzi e la sua riforma costituzionale. Alla quale naturalmente dirà no nel referendum del 4 dicembre per rimanere fedele al ruolo assegnatosi, quando indossava ancora la toga, di “partigiano della Costituzione”: quella vecchia approvata alla fine del 1947 e considerata anche da lui “la più bella del mondo”.

Più che una riforma, il presidente del Consiglio avrebbe compiuto un mezzo attentato alla carta costituzionale per trasformare in “verticale” la democrazia che i padri costituenti vollero “orizzontale”. E’ un po’ la traduzione ingroiana della distinzione fatta dal presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky fra “oligarchia” e democrazia” nel confronto televisivo con Renzi, a La 7. Che si è concluso con un 2 a 0 per il presidente del Consiglio assegnato da Eugenio Scalfari fra le proteste di molti suoi lettori. I quali non gli perdonano di preferire l’oligarchia alla democrazia, anche se il fondatore di Repubblica ha spiegato di considerare l’oligarchia né più né meno che la “classe dirigente”. Che non è in contrasto con la democrazia ma ne è la conseguenza: buona quando chi è eletto per governare si circonda di persone competenti, che possono dargli buoni consigli, cattiva quando si circonda di incompetenti che possono solo garantirgli fedeltà e obbedienza.

La democrazia che Renzi ha trasformato o vuole trasformare con la sua riforma da orizzontale a verticale, cioè solo per dare ordini, dall’alto in basso, corrisponde secondo Ingroia al cosiddetto “Piano di rinascita” concepito più di 30 anni fa dal capo della loggia massonica P2 Licio Gelli. Una loggia affollata di generali, dirigenti pubblici, politici e giornalisti, e considerata eversiva dalla commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Tina Anselmi, anche se Gelli è stato riconosciuto colpevole dai tribunali ordinari della Repubblica solo di procacciamento di segreti di Stato, calunnia nei riguardi di tre magistrati operanti a Milano, depistaggio nelle indagini sulla strage del 1980 nella stazione di Bologna e frode nella bancarotta del Banco Ambrosiano nel 1982.

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Del piano di Gelli, secondo Ingroia, la riforma di Renzi sarebbe “la figlia”, con una gravidanza però gestita in un’infinità di anni, essendosi mossi sulle orme del capo della P2, in ordine cronologico, Bettino Craxi, Francesco Cossiga, Silvio Berlusconi, risultato peraltro iscritto alla P2, e addirittura Giorgio Napolitano. Al quale Ingroia non perdona evidentemente il ricorso del 2012 alla Corte Costituzionale contro le resistenze opposte dalla Procura di Palermo alla distruzione delle telefonate con Nicola Mancino registrate durante le indagini sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia.

Renzi, peraltro toscano come Gelli, è comunque fortunato perché Ingroia può solo fargli, ripeto, un processo mediatico. Se fosse ancora in magistratura, non avrebbe forse resistito alla tentazione di aprire un fascicolo giudiziario per un processone analogo a quello in corso da più di tre anni per le trattative con la mafia. Un processone che si trascina stancamente fra interrogatori nonostante alcuni dei 12 imputati, come il generale dei Carabinieri Mario Mori, siano stati già assolti per gli stessi fatti in processi analoghi ed altri, come l’ex ministro Calogero Mannino, sia stato assolto avendo preferito farsi giudicare col rito abbreviato.

Ignazio Marino

Alemanno, Cota, Marino, Zingaretti e il doloroso digiuno degli sciacalli

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