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Lo Stato islamico ha riconquistato Palmira. La città patrimonio dell’Unesco – in parte brutalizzata da dieci mesi di precedente occupazione dei baghdadisti – è tornata domenica di fatto sotto il controllo del gruppo guidato da Abu Bakr al Baghdadi, dopo che un’offensiva iniziata giovedì con una serie di attacchi suicidi aveva colto di sorpresa i governativi. La notizia è definitiva, la conferma è arrivata dall’agenzia stampa statale siriana Sana, seguiranno le operazioni lealiste di controffensiva (che dovrebbero partire da Talal al Barazi, area esterna alla città ancora sotto il controllo governativo). A marzo Palmira era stata riconquistata dal regime (leggasi: Hezbollah e milizie sciite, supportate direttamente da uomini dei reparti scelti russi) e quella vittoria era stata descritta trionfalmente dai media russi. Mosca aveva organizzato visite guidate per i giornalisti e appena garantito un livello accettabile di sicurezza aveva spostato in trasferta l’orchestra del teatro Mariinskij di San Pietroburgo per suonare tra le macerie e le rovine romane cittadine Bach, Prokofiev e Shchedrin, tutto sotto la direzione di Valery Gergiev, maestro d’orchestra con libero accesso al presidente Vladimir Putin di cui è intimo amico e colto sostenitore. Quando la comunità internazionale accusava Mosca di non lavorare contro lo Stato islamico ma di essere intervenuta in Siria soltanto per difendere i propri interessi fornendo sostegno al regime atroce di Bashar el Assad (e conseguenti accuse di crimini e atrocità di guerra), dal Cremlino rispondevano qualcosa come “E Palmira allora?”. Palmira era il simbolo sbandierato della lotta russo-siriana contro il terrorismo: era praticamente l’unico fronte aperto dai soldati di Mosca contro Baghdadi, l’unico successo oggettivo riportato. Ora, a distanza di pochi mesi quel simbolo è caduto. Il Wall Street Journal usa un termine chiaro per descrivere la situazione, “imbarazzante”. “La catastrofe è successa” ha detto il direttore generale delle Antichità siriane, Maamoun Abdulkarim, in una telefonata al Guardian. Una Tv di Mosca domenica ha diffuso delle rare immagini di alcuni uomini delle forze speciali in combattimento in Siria, mentre Russia Today ha ripreso le parole dell’ex ambasciatore americano in Croazia, Peter Galbraith, che ha parlato di quanto fosse importante l’intervento russo a sostegno del regime a Palmira come “servizio all’umanità” (Galbraith aveva parlato della necessità di lavorare con la Russia per risolvere la crisi siriana anche in un commento uscito sul New York Times la scorsa settimana). Due metodi propagandistici per minimizzare la situazione e distogliere l’attenzione.

Numerose perdite tra i militari siriani – forze lealiste, meglio –, gli altri in fuga davanti all’avanzata di circa quattro mila combattenti jihadisti, che nei mesi successivi alla presa di Palmira si sono rafforzati, dimostrando che l’arretramento territoriale “non è definitivamente una sconfitta”, come detto a Formiche.net dall’analista del Nato Defence College Matteo Bressan. I baghdadisti si sono riorganizzati attorno della storica “oasi sulla Via della Seta” (definizione rubata al Guardian) anche per colpa del disinteresse dei lealisti. Mentre passavano mesi di relativa tranquillità, la Russia ha spostato i propri soldati precedentemente sistemati su una base temporanea creata per l’appoggio logistico alle operazioni di riconquista, perché nel frattempo veniva dato peso preferenziale ad altri fronti: uno su tutti, quello di Aleppo. È da lì che pare si stiano staccando alcune unità per portare rinforzo a Palmira, mentre i caccia russi martellano dall’alto: ma se Assad dovesse mettere su un piatto battere i ribelli non-IS ad Aleppo e cedere ai tagliagole le rovine romane di Palmira, non esiterebbe un attimo sul scegliere la prima opzione. La coperta è corta. Quello che è successo a Palmira non solo dimostra che il regime e i suoi alleati non sono troppo concentrati sul combattere l’Isis, ma è un paradigma per il futuro: con quale capacità di controllo il presidente siriano Assad sostiene che l’obiettivo del suo governo è riprendere dopo Aleppo tutto il paese? L’arretramento governativo a Palmira, si porta dietro segnalazioni sulla fuga dei soldati siriani, uno sgombero caotico, stando alle ricostruzioni (non confermabili, ma affidabili) del giornalista siriano con base a Londra Danny Makki. Per dirigere il panico diffuso dalla fuga dei soldati tra i civili sarebbero intervenute unità speciali dei Guardiani iraniani: sabato almeno sessanta bombardamenti russi aveva bloccato l’avanzata dei soldati del Califfato, che poi si sono riorganizzati con rinforzi provenienti dai territorio orientali (Rqqa e Deir Ezzor) e lanciato lo sforzo finale domenica. I soldati siriani fuggiti attraverso l’aeroporto T4, più a ovest, avrebbero anche abbandonato sul campo numerosi carri armati, cannoni a medio raggio, lanciarazzi multipli Grad, e altri pezzi di artiglieria e armi leggere (una nota per chi si chiede come faccia lo Stato islamico ad ottenere le armi: tre giorni fa la Coalizione a guida americana, tra l’altro, aveva lanciato un pesante raid con il quale aveva distrutto più di cento autocisterna che trasportavano il petrolio del Califfo nell’area di Palmira, i mezzi probabilmente provenivano dai pozzi di Deir Ezzor).

(Foto: Amaq News, alcuni combattenti dello Stato islamico probabilmente a Palmira, alzano il dito indice al cielo per dedicare all’unico Dio la vittoria in battaglia)

Che cosa è successo a Palmira?

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