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Più che dal rottamato ma sempre rumoroso Massimo D’Alema, o dal claudicante Silvio Berlusconi, ricorso a Stefano Parisi come ad una stampella, o dallo sfrenato lepenista Matteo Salvini, o dal vaffanculista – scusate il termine – Beppe Grillo, alle prese con la rogna del Campidoglio rifilatagli astutamente da Gianni Alemanno e amici o camerati, secondo le complottistiche visioni della sindaca Virginia Raggi e del direttorio a 5 stelle che la controlla, il presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi è minacciato dal generale Pil. Che non è naturalmente un parente vicino o lontano di Ho Chi Minh, lo storico presidente vietnamita che riuscì a sconfiggere e a cacciare dal suo paese gli americani, ma più modestamente, e vicino, prodotto interno lordo italiano, dispettoso e ostinato nella guerra che gli conduce dal primo giorno del suo insediamento a Palazzo Chigi.

Quella crescita zero certificata nel secondo trimestre dell’anno dall’Istat, che ha purtroppo la sua sede a Roma, a due passi dal Ministero dell’Interno, e non ad Amatrice, dove di notte, a locali fortunatamente vuoti, avrebbe potuto essere una volta tanto provvidenzialmente distrutto dal terremoto il 24 agosto scorso, è per il governo una tegola grossa come una casa. Lo è nonostante gli acrobatici tentativi di Renzi, ma anche del suo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, di ridurne il peso prevedendo ugualmente per fine anno una pur modesta crescita dello 0,7 per cento.

Astuto sì, ma forse non quanto le circostanze imporrebbero, Renzi è ricorso ad una immagine ciclistica per descrivere la situazione economica del Paese, e di conseguenza quella politica del suo governo in carica ormai da più di due anni e mezzo, anche se sembra ancora recente la foto di quell’Enrico Letta furente che gli passa sbrigativamente il campanello d’argento del Consiglio dei Ministri. Egli ha detto, in particolare, che con lui in bicicletta, in quell’interminabile e difficile giro d’Europa in corso, l’Italia è riuscita ad agganciare, diciamo pure a rientrare nel gruppo, rimanendo tuttavia “in coda”.

Peccato che, sempre maledettamente tentato dall’immagine ciclistica, che un ciclista vero o esperto come Romano Prodi si sarebbe forse risparmiato, Renzi avesse parlato recentemente, o dato l’impressione, commentando i suoi sempre più frequenti vertici a due con Angela Merkel, o a tre con François Hollande, per terra e per mare, dopo la pur non immediata uscita della Gran Bretagna dall’Europa, di un’Italia politicamente arrivata nel gruppo di testa di questa benedetta Unione Europea.

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Qualche buontempone del cosiddetto fronte del no alla riforma costituzionale si è già avventurato a prevedere effetti della cosiddetta crescita zero sul referendum d’autunno. Di cui Renzi ha smesso di parlare annunciando o minacciando le dimissioni in caso di bocciatura per “spersonalizzare” l’appuntamento con le urne, peraltro non ancora fissato, ma lasciandosi ogni tanto scappare: “Sapete quello che farei”. Dimettersi, appunto. Ma forse non più irrevocabilmente, e comunque solo da presidente del Consiglio, non anche da segretario del Partito Democratico. E non più spingendo per le elezioni anticipate perché “comunque” le elezioni politiche si svolgeranno alla scadenza ordinaria del 2018.

Giochi e prospettive a monte o a valle del referendum sulla riforma costituzionale sono di carattere strettamente politico, o addirittura personale, in molti casi, come in quello di D’Alema, non economico. Anche Renzi sa, a dispetto di ciò che deve dire per comprensibili ragioni di propaganda, che non incideranno certamente sul Pil i tanto declamati risparmi di un Senato ridotto a poco più di cento esponenti rimborsati solo delle spese, e annessi, salvo le indennità spettanti ai residui senatori o a vita, o a quelli che ne prenderanno il posto per la durata del mandato del presidente della Repubblica che li nominerà.

Le logiche del sì e del no sono di tutt’altro segno. Per una parte del Pd sono quelle di un congresso eternamente in corso, non essendo ancora stata metabolizzata la vittoria conseguita l’ultima volta da Renzi, considerato più o meno esplicitamente un intruso dagli sconfitti, alla ricerca continua perciò di una rivincita, con tutti i rischi che ciò comporta, come sanno quelli che al tavolo da gioco si ostinano a puntare finendo il più delle volte per perdere sempre di più.

Per il centrodestra, o per quel che ne rimane dopo le scosse che lo hanno terremotato non da ieri ma ormai dal 2010, quando si consumò la rottura fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, il sì e il no riguardano solo apparentemente la riforma costituzionale e persino il destino personale di Renzi. In realtà, riflettono la crisi d’identità di quello che ci siamo abituati per tanto tempo a chiamare centrodestra ma che non è più tale. O comunque non è più quello di una volta. Da quelle parti il sì è diventato sinonimo di mollezza, il no di durezza. Ma di mollezza e durezza non tanto nei riguardi di Renzi e del suo governo, o della riforma in sé, quanto nei rapporti fra le varie componenti dell’area una volta dominata e controllata da Berlusconi.

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Anche fra i grillini il rapporto col referendum sulla riforma costituzionale si è distorto dopo il caos esploso in Campidoglio. Da elemento di contrasto a Renzi, e di spallata alla legislatura, nella logica di una ormai inarrestabile ascesa del movimento 5 Stelle, il no è diventato l’unico denominatore comune, e identitario, di un partito allo sbando, una volta alle prese con i problemi reali del governo di una grande e difficile città come Roma: un governo solo apparentemente locale, in realtà governo e basta.

Incapaci di decidere se lasciare governare davvero la sindaca Virginia Raggi o liberarsi di lei, che ha però l’inconveniente di essere stata eletta direttamente, per cui le sue dimissioni si porterebbero appresso l’intero Consiglio Comunale, i grillini si accontentano di votare contro la riforma costituzionale. Non a caso, a dispetto di ciò che accade a Roma, il deputato pentastellato Alessandro Di Battista continua il suo giro d’Italia in motocicletta per propagandare il no referendario, come se fosse il Che Guevara italiano del 2016.

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