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Il referendum sull’approvazione della riforma costituzionale è diventato un appuntamento cruciale sia per la politica, sia per l’economia e, più in generale, per le prospettive del nostro Paese.

Al netto della legittima propaganda che entrambe le parti svolgono, appare eccessivo pensare sia in atto un tentativo da parte di alcuni governi esteri, che da alcuni è stata fatta balenare come interferenza esterna, di influenzare la campagna referendaria, anche visti gli ultimi risultati negativi ottenuti, come insegna il caso Brexit.

Nel caso specifico, gli Stati Uniti non interferiscono nelle vicende italiane, e le parole dell’ambasciatore Phillips, che hanno destato un vivo dibattito poche settimane fa, erano evidentemente considerazioni di ordine generale vicine al senso comune, dal momento che un’eventuale instabilità di governo generata da un voto negativo potrebbe avere ripercussioni non solo politiche, ma anche economiche. Come qualsiasi investitore sa bene, si tratti di un attore nazionale o estero, l’instabilità di governo è un fattore di rischio per qualsiasi iniziativa e quindi, senza entrare nel merito della riforma, la circostanza che la sua approvazione o ricusazione porti in sé una potenziale crisi di governo, appare essere un fattore dirimente per gli investitori internazionali.

A ulteriore riprova di questa oggettività, sussistono abbondanti prove e testimonianze da parte di illustri economisti e di svariate agenzie di rating che prevedono un’instabilità di governo nel caso vincesse il no al prossimo referendum costituzionale. Dal che si evince come, ad esempio, lo sguardo delle agenzie di rating, nessuna esclusa, veda il sistema-Italia come un importante tassello nel mosaico europeo, se non addirittura internazionale. L’Italia è quindi vista dagli investitori americani all’interno di un quadro più ampio, dell’eurozona prima di tutto (in questo, la situazione critica dei debiti sovrani gioca un ruolo determinante) ma anche con i sistemi limitrofi. La nostra economia, e le nostre riforme, sono un tassello di un puzzle complesso e polifonico.

Osservando lo stato delle relazioni transatlantiche tra Italia e Stati Uniti è utile notare come, per la prima volta dal 2003, gli investimenti italiani negli Usa (che ammontano a circa 28 miliardi di dollari) sono stati superiori a quelli americani in Italia (22,5 miliardi di dollari, in calo del 7,6% rispetto al 2014). Non siamo al centro del radar americano – al tredicesimo posto in Europa nell’attrazione degli investimenti americani – e questo dipende da fattori noti quali l’eccessiva burocrazia e regolamentazione, l’imponente carico fiscale, una diffusa corruzione, nonché dall’impressione di una certa instabilità politica, dovuta in primis alla precaria situazione dei conti pubblici (debito, spesa pubblica, ecc.). In una sola parola, che terrorizza gli investitori americani: unpredictability. Questi sono i problemi reali che impediscono un maggiore afflusso di investimenti americani in Italia e il referendum, per quanto possa essere un importante tassello all’interno del disegno riformatore promosso da questo governo, non è un game changer nel modificare drasticamente in positivo la nostra attrattività. Il premio Nobel Stiglitz si è persino spinto a dichiarare che solo l’abbandono di questo referendum potrebbe portare un reale beneficio all’Italia e, di conseguenza, all’Europa intera.

Appare evidente che un Paese più moderno, efficiente e politicamente stabile è certamente, in prospettiva transatlantica, sinonimo di dinamismo e, naturalmente, piaccia; un Paese che sceglie di rimanere allo status quo, che in vocabolario economico per quanto riguarda l’Italia attuale si legge purtroppo come stagnazione economica, convince assai meno. Quello che non appare chiaro è cosa si debba intendere per status quo e se il cambiamento a prescindere possa essere valutato come positivo, laddove però si evita di affrontare i veri nodi gordiani che da decenni soffocano le prospettive di crescita italiane, quali, come già citato, la complessità della pubblica amministrazione, la lentezza della giustizia, il total tax rate che, purtroppo, è uno dei più alti in Europa. Come rappresentanti delle aziende americane in Italia, con un orecchio sempre teso a comprendere le principali preoccupazioni provenienti da questo mondo, guardiamo con favore a tutto ciò che, direttamente o indirettamente, possa migliorare il business climate italiano e che quindi produca effetti positivi e misurabili sulla percezione da parte degli investitori esteri. L’Investment Climate Statement 2016, redatto ogni anno dal dipartimento di Stato americano, recita: “L’economia italiana è uscita fuori dalla più lunga recessione che si ricordi e l’attuale governo sta facendo progressi nei suoi sforzi per migliorare il clima degli investimenti nel Paese”.

A riprova di quanto sopra, gli investimenti effettuati nel 2016 ad esempio da Dover Corporation, Watts Industries, Dow Chemical, Accenture, Amazon, AbbVie, Medtronic sono dimostrazioni di fiducia nei confronti del nostro Paese, ricco di eccellenze e potenzialità ancora inespresse, e del dinamismo del governo nel cercare di migliorare la nostra situazione. Ma lo stesso documento afferma anche che: “Molte multinazionali statunitensi hanno richiesto l’assistenza dell’ambasciata Usa per la gestione di questioni fiscali, esprimedo preoccupazione circa la possibilità che l’Agenzia delle entrate abbia preso di mira grandi aziende. Secondo le aziende, indagini fiscali in Italia si concentrerebbero su pratiche contabili societarie che sono ritenute legitime in altri Stati membri Ue, generando incoerenz e incertezza”.

Questa percezione dell’Italia, che non dipende da questioni di carattere costituzionale e istituzionale, è il fattore che ostacola la nostra attrattività. Una volta superato lo spartiacque del referendum, qualunque sia l’esito, bisognerà tornare a porre enfasi ed energia alla soluzione dei veri bottleneck che strozzano la nostra economia, affrontandoli con pragmatismo e vigore per riuscire a invertire definitivamente la rotta e sprigionare tutte le nostre potenzialità.

Simone Crolla (Direttore della American chamber of commerce in Italy)

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