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Mito o ragione? Il dilemma che si ripete ogni volta quando si tratta di giudicare un personaggio che ha lasciato il segno, si ripropone ancor più netto nel giudicare Fidel Castro. La risposta nel suo caso è che il mito ha preso il sopravvento. E l’ironia della storia è che il suo mito è stato costruito da un altro mito, quello di John Fitzgerald Kennedy, il più sopravvalutato presidenti a stelle e strisce. Fidel era un rivoluzionario latino-americano fatto con lo stampo e destinato a diventare una sorta di caudillo più o meno benevolente. La sua rivolta contro il regime corrotto e mafioso di Fulgencio Batista, nel 1959, aveva una chiara impronta libertario-nazionalista. Nessuno poteva immaginare che il gigante barbuto dei Caraibi sarebbe diventato un nuovo Simon Bolivar o addirittura un nuovo Mao dalla cui ombra si stagliava un altro Lin Biao (Ernesto Che Guevara) ispiratore della rivoluzione permanente che dalle campagne del Terzo Mondo marciava verso le metropoli dell’imperialismo.

Se non ci fosse stato lo sciagurato e disastroso tentativo di invasione americana sulla Baia dei Porci nell’aprile 1961, se Kennedy, a tre mesi dal suo insediamento, avesse scelto di seguire non gli amici del padre alla Sam Giancana, i quali facevano loschi e ricchi affari con Batista, ma la wilsoniana esportazione della democrazia nemica dei dittatori e degli autocrati di ogni risma, ci saremmo risparmiati tutta questa melassa pseudo-marxista (il barbuto di Treviri sarebbe inorridito di fronte alle campagne della zafra o alle presunte teorie economiche del Che) e chissà quante t-shirt, quanti baschi stellati, quanti “viaggi della speranza” di una sinistra europea orfana di Stalin e della rivoluzione culturale, in cerca a sua volta di un nuovo mito.

La storia non si fa con i se? Calma con questo determinismo, la storia è l’insieme delle scelte concrete, degli atti compiuti dagli uomini. Gli errori di Kennedy hanno gettato Fidel nelle braccia dell’Unione Sovietica dove un uomo rozzo e spregiudicato come Nikita Sergeevič Chruščëv, già cocco di Stalin, sterminatore di contadini in Ucraina, ha cercato di usarlo alla stregua di una colorita e logorroica marionetta, per mettere gli Stati Uniti con le spalle al muro, rischiando l’olocausto nucleare. Sia lui sia Kennedy portarono il mondo sull’orlo della distruzione in quei tredici giorni dell’ottobre 1962, poi la ragione si risvegliò dal suo sonno e mise a tacere il mito. JFK alla fine reagì con realismo e lo stesso fece Nikita.

Non sembri ingeneroso concentrare il coccodrillo su Fidel attorno a quei primi anni cruciali. Intanto può servire a ricordare ai giovani i quali sostengono di vivere in tempi oscuri, quanto fossero davvero bui, molto più bui, i tempi in cui sono vissuti i loro padri. Ma soprattutto è ora di ammettere che dopo quel primo triennio, di Fidel non resta che la propaganda costruita da agit-prop in cerca di identità. Lo stesso, in fondo, vale per JFK, il primo ad entrare in quel circuito mediatico-politico che ci porta, sia pur nelle forme perverse assunte dai social media, fino a Donald Trump.

Castro ha tenuto Cuba in un limbo di povertà e oppressione. In un mio viaggio nei primi anni ’80 fui colpito dalla processione di grigi burocrati est europei che ogni mattina uscivano dagli alberghi per andare a dirigere gli zuccherifici, unica industria di un paese schiacciato da una monocultura tipica dell’imperialismo sovietico (e anche della Russia di oggi dipendente in modo pressoché totale dal gas). Che stridente contraddizione con le file di giovani creoli davanti ai chioschi di gelato o con la processione di vecchie e gigantesche auto americane degli anni ’50, curate in ogni particolare conservate e lucidate con orgoglio, di fronte alle quali sparivano le tristi Lada uscite da Togliattigrad il cui motore fondeva al caldo dei tropici. Mi fu chiaro senza dubbio, nonostante fossi anch’io confuso dal mito tardo-marxista, che i libri scritti da sofisticati intellettuali europei, dai Saverio Tutino, dai K.S. Karol, erano romanzi non analisi basate sui fatti. Di nuovo il mito contro la ragione.

Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno seguito una politica estera miope nel Centro America anche dopo la fine della guerra fredda: l’embargo nei confronti di Cuba è stato inutile ed era diventato persino ridicolo. Fidel muore mentre il castrismo sopravvive a se stesso con suo fratello Raul meno carismatico, ma non meno brutale nella gestione del potere. Non durerà più a lungo anche grazie all’apertura decisa da Barack Obama e preparata lungamente e accuratamente dal Vaticano. Cuba non rappresenta in nessun modo, e da almeno un quarto di secolo, un pericolo. Ma gli Stati Uniti, nonostante tutto quel che è accaduto dopo l’implosione dell’Unione sovietica, non hanno mai saputo costruire una politica positiva nei confronti dell’America Latina. Lo farà Trump con il suo muro anti-messicani e con il suo America First che non assomiglia minimamente a quella “America agli americani” del presidente Monroe, grido liberatorio nei confronti delle potenze coloniali europee? Non sembra proprio. Peccato. Perché la scomparsa di Castro potrebbe davvero aprire una pagina nuova.

Stefano Cingolani

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