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La Confindustria si è schierata all’unanimità per il Sì al referendum del prossimo ottobre. Una posizione comprensibile ed anche auspicabile. In un Paese, dove dal 2008, la capacità di produzione industriale ha subito una contrazione del 20%, è bene che il mondo del manifatturiero e il governo lavorino insieme per far sì che il settore architrave del nostro benessere torni alla prosperità di un tempo. E’ pure logico che la Confindustria consideri la stabilità politica essenziale per la ripresa e che tema che essa verrebbe a meno in caso di una sconfitta di un governo, il cui presidente del Consiglio ha legato il proprio futuro politico all’esito del referendum.

Una volta presa posizione per il Sì è meno comprensibile che sia stata data ampia diffusione a una elaborazione econometrica del Centro Studi Confindustria (CSC) di quattro pagine in cui essenzialmente si dice che in caso di vittoria del No il Paese rischia di finire in pessimi marosi mentre in caso contrario il Sì spianerebbe la via della crescita e dello sviluppo. Non sta a me entrare nel merito delle simulazioni del CSC tanto più che, pur invitato al seminario di presentazione, non ci sono andato per impegni concomitanti e per il timore e tremore di un viaggio a Viale dell’Astronomia in una giornata con 34 gradi all’ombra.

Tuttavia, sotto il profilo tattico, mi sembra che sarebbe stato preferibile presentare a pochi economisti un corposo documento con una piena spiegazione del modello, delle ipotesi, dei parametri e della reattività al mutamento delle ipotesi, nonché con un’analisi stocastica di rischio di previsione. La sintesi di quattro paginette, e con un tono apodittico, può sortire un effetto boomerang.

Pochi ricordano le elezioni de 1965 quando era nell’aria quella che allora veniva chiamata l’”apertura a sinistra”. La Confindustria in quanto tale non si schierò apertamente, anche se lo fece la stampa controllata o in prima persona dalla confederazione o da importanti  gruppi industriali (con l’eccezione del quotidiano torinese molto prossimo alla FIAT). Anzi l’ufficio studi della confederazione, allora di fronte al “Bottegone” (casa del PCI), pubblicò un’interessante monografia sulla “programmazione indicativa francese”, quasi ad indicare che l’industria avrebbe potuto svilupparsi in una politica di piano “indicativa” ove si fosse realizzata l’’apertura a sinistra’.

Fece, però, da ariete la Confedilizia prendendo spunto dalla proposta di legge urbanistica proposta dell’allora Ministro dei Lavori Pubblici, Fiorentino Sullo. La proposta, modellata sulla esperienza britannica, prevedeva un regime di “diritto di superficie” di 99 aree per le aree fabbricabili ancora prive di costruzioni ed un sistema di piani regolatori comunali. La legge venne presentata come la fine della proprietà privata e l’inizio di una serie di espropri anche delle case già esistenti e via discorrendo. Con l’inevitabile tracollo dell’economia. Vennero organizzati convegni in tutt’Italia con la conclusione al Teatro Adriano, allora la sala più vasta di Roma, con folla straboccante su Piazza Cavour. Gli argomenti toccavano la “pancia” degli italiani più di quattro pagine di simulazioni econometriche.

Ciononostante, e forse per la enfasi eccessiva, dalle elezioni uscì una forte maggioranza di centro sinistra e dopo una fase di negoziati il Psi entrò nel governo, Un vero e proprio boomerang.

Vincenzo Boccia

Confindustria, il referendum e i potenziali boomerang

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