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Viviamo tempi difficili, che ci preoccupano molto e che ci impongono riflessioni serissime. Sulle cause, sulla realtà dell’oggi, sulle prospettive future.

La vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, la crescita elettorale di Alternative für Deutschland (AfD) in Germania, del Front National in Francia, della destra estrema in tutto l’Est Europa, della Lega Nord e – per alcuni tratti – del M5S in Italia, suonano la sveglia. In realtà è già tardi ma non sentirne il suono sarebbe politicamente irresponsabile.

La nostra traccia di ragionamento poggia su due tesi, che si sostengono a vicenda e che soltanto se tenute insieme possono avere un valore prescrittivo, indicare una soluzione.

La prima tesi è un’analisi impietosa di quel che abbiamo alle spalle. Le forze populiste di destra dilagano non per fattori casuali o indecifrabili. Esse sono il frutto del fallimento delle classi dirigenti che hanno governato negli ultimi decenni e, più precisamente, delle politiche neo-liberali che centro-destra e centro-sinistra, senza apprezzabile soluzione di continuità, hanno imposto ai propri Paesi. Pensiamo all’Italia, come a diversi altri Paesi europei. Esiste una crisi di credibilità profondissima di quello che è percepito come establishment, in ragione della quale moltissime persone si sono allontanate dalla politica. In particolare, ha prodotto la fuga nella solitudine o nell’apatia sociale le classi deboli e il ceto medio impoverito, in un circolo vizioso di crescente insicurezza, precarietà estrema, assenza di prospettive, indebolimento delle istituzioni pubbliche e dei corpi intermedi. La stessa pratica sistematica alla destrutturazione dei luoghi dell’organizzazione collettiva, agita dalle classi dirigenti a partire da quelle dei partiti della sinistra, è stata letale. Una malattia che ha attraversato a livello culturale e analitico sia la sinistra moderata sia la sinistra radicale. Da Amato a Negri, per dirla schematicamente, hanno condiviso in questi decenni l’idea di una post-modernità, in cui la fluidità e la disarticolazione dei corpi intermedi erano considerate funzioni inevitabili del cambio del sistema produttivo. Così i partiti e i corpi intermedi sono stati picconati, accompagnando – talvolta dirigendo – i processi di frammentazione e parcellizzazione sociale che si sviluppavano a livello strutturale. È il trionfo del neoliberismo, che ha stravolto la grammatica della politica, i suoi simboli, il suo linguaggio, i suoi stessi fini.

La seconda tesi chiama in causa le nostre responsabilità nei confronti del futuro. Di fronte alle grandi trasformazioni sociali, politiche e culturali che scuotono il mondo, riteniamo che sia urgente ricostruire, curare, nutrire un nuovo campo progressista, una nuova proposta di governo per il Paese e per l’Europa che chiuda definitivamente la stagione della subalternità alle politiche degli ultimi anni. Serve un campo progressista, una soggettività politica capace di unire, accogliere, comprendere e immaginare un mondo diverso. Uno spazio della sinistra che riporti al centro la persona e i suoi bisogni, valorizzando e riappropriandosi di quei valori che negli ultimi anni sono stati accantonati: solidarietà, equità, giustizia sociale, rispetto della dignità della persona umana, emancipazione e riscatto collettivo per una società di liberi e di eguali. Una sinistra che travalichi le barriere, che costruisca ponti e offra risposte praticabili ai problemi che affliggono la vita di decine di milioni di persone in Italia e nel resto d’Europa. In alternativa al populismo delle destre italiane e al progetto avventuristico, fragile, contraddittorio del Movimento Cinque Stelle. In questo il congedo dalla residualità e dalla marginalità della sinistra minoritaria, disinteressata al consenso e alla trasformazione, deve essere lineare, radicale, conseguente.

Qui si colloca la campagna referendaria che stiamo conducendo in queste settimane. Una battaglia aspra perché tocca al cuore il senso della nostra democrazia, della sovranità popolare, il valore della Carta costituzionale.

Non possiamo non rilevare come essa si sia progressivamente trasfigurata in una battaglia tra opposte tifoserie, trasformando in maniera irresponsabile un momento alto di democrazia in una sagra della volgarità e dell’insulto.

Il Paese dopo il 4 dicembre rischia di essere, qualsiasi sia l’esito del voto, più diviso e più incattivito di quanto non sia oggi. La bellezza di una Carta come “casa comune”, quella che Palmiro Togliatti definì l’Arca dell’Alleanza per il popolo italiano, rischia di consumarsi, di affievolirsi.

Dopo il 4 dicembre – quando noi voteremo consapevolmente e coerentemente con la biografia collettiva alla quale apparteniamo – c’è il 5 dicembre. Quel giorno dovremo ricominciare a camminare contro vento, impegnandoci nella direzione che la traccia di ragionamento prima accennato e questo stato di cose indicano. Dovremo lavorare per chiudere definitivamente una stagione di subalternità e politiche divisive. E dovremo lavorare per riaprire una partita, riaprire una prospettiva. Non per questo o quel partito, ma per il Paese, per la nostra gente, che non possiamo più consegnare arresa a una presunta sinistra che ha perso l’anima o alle tante sfumature di grigio del nuovo populismo che bussa alla porta.

Il nostro impegno è questo.

(scritto a quattro mani con Simone Oggionni, Segreteria Nazionale SEL)

presidenzialismo

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