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Martedì Mike Rogers, ex deputato e fino al 3 gennaio del 2015 chairman della Comitato Intelligence della Camera, si è dimesso dal transition team di Donald Trump, ossia non farà più parte del gruppo di persone che faciliterà il passaggio di consegne tra l’attuale amministrazione e quella futura, che partirà i suoi lavori effettivi dal 20 gennaio prossimo. I team di transizione sono gruppi di lavori delicati, che entrano in contatto con i dossier caldi del governo e vengono ragguagliati su tutto quello che succede dietro le facciate protocollari di Washington.

LE LOTTE INTERNE

Trump sta cambiando via via elementi dal gruppo: nominato a giugno per necessità legale, il capo Chris Christie, governatore del New Jersey e “trumpiano della prima ora” (si direbbe qui in Italia), è stato fatto fuori venerdì scorso, e sostituito col vice presidente eletto Mike Pence. Secondo più fonti interpellate dalla CNN – che confermano ulteriormente quello che in fondo gira da giorni – alla base di questo caotico incedere della fondamentale squadra di transizione ci sono lotte per accaparrarsi il potere. Scrive lo stesso Trump su Twitter che solo lui conosce “i nomi dei finalisti”, e il pensiero vola direttamente a “The Apprentice”, il reality show dove wannabe businessman si scannavano per mostrarsi migliori agli occhi di The Donald, e in palio c’era un contratto milionario per lavorare col Boss. Pare che al centro delle beghe interne sia posizionato Jared Kushner, marito di Ivanka Trump e imprenditore di successo con l’ambizione di trovare uno spazio politico, anche se l’accesso diretto al futuro presidente non dovrebbe mancargli (essendone il genero). Sarebbe stato lui a volere l’allontanamento di Christie (c’è una vecchia storia: quando Christie era procuratore aveva perseguito il padre di Kushner per evasione fiscale, e ora il figlio diventato genero-in-chief vuole fargliela pagare). Ci sarebbe sempre lui dietro all’addio di Rogers, considerato vicino a Christie. Al suo posto è stato inserito nel gruppo di transizione Frank Gaffney, fondatore del Center for Security Policy, uno dei massimi esponenti di teorie complottiste del tipo “Obama non è nato in Usa”, islamofobo, convinto che il nuovo stemma della Missile Defence Agency del Pentagono è la prova che la Fratellanza Musulmana è infiltrata negli Stati Uniti.

LA NATIONAL SECURITY

Rogers era un elemento di valore del team e per questo aveva in mano uno dei dossier più sensibili, la Sicurezza Nazionale. Si era parlato di lui come della prima scelta per guidare la Cia, ma adesso la questione dovrebbe saltare (ora in cima alla lista è salito il Pete Hoekstra, rappresentate del Michigan come Rogers). L’ex deputato è rispettato nel suo mondo: non è ancora chiaro se sia stato lui a mollare, oppure sia stato messo sotto forti pressioni dirette. In definitiva pare che non fosse più in accordo con il lavoro della squadra, e secondo gli insider che parlano con i media americani il punto di scontro pare proprio l’attrito tra le linee storiche repubblicane, in buona parte rappresentate dal partito, e quelle sostenute dall’inner circle di Trump su temi come la sicurezza nazionale. I rapporti col partito sono uno dei nodi da sciogliere per la futura amministrazione, anche perché entrambe le camere sono in mano ai repubblicani. Esempio: martedì una delle star rep del Congresso, il senatore John McCain, ha pesantemente criticato le inclinazioni di Trump verso Mosca e i suoi atteggiamenti in politica estera. Far coincidere le posizioni trumpiste e quelle del Gop è una questione ardita, ma non impossibile.

E IL PARTITO

Altro esempio su un ambito campo di battaglia, il dipartimento di Stato. Al momento il primo in lizza è il fedelissimo Rudy Giuliani, uno che durante la campagna elettorale ha tenuto una posizione incernierata sulla necessità di aumentare la lotta al terrorismo, parole da comizio per il momento senza seguito operativo (ossia: sì, ma come?); ma d’altronde Giuliani è famoso per il pugno d’uro, la tolleranza zero e per essere stato il sindaco di New York dopo il 9/11. Dietro di lui occhieggia la figura di John Bolton, che non è proprio il profilo trumpista per eccellenza; da annotare il commento del senatore repubblicano Rand Paul: “Sarebbe un disastro”. Bolton è stato ambasciatore americano alle Nazioni Unite durante la presidenza di George W. Bush e rappresenta gran parte delle visioni del partito sui dossier critici della politica estera. Ha sostenuto una linea dura contro l’Iran e contro il regime siriano, è stato grande sostenitore della guerra in Iraq, che Trump ha fortemente criticato (“un disastro”) durante la campagna elettorale. Ma anche qui, la discrepanza c’è ma non è impossibile da colmare: sull’Iran, per esempio, durante il terzo dibattito televisivo Trump aveva speso parole favorevoli in quanto Teheran stava combattendo l’Isis, ma durante un incontro con la lobby israeliana aveva detto che smantellare il deal “disastroso” con l’Iran, “il peggior accordo mai negoziato” era in testa alle sue priorità. Quale sarà la linea del presidente per il momento non è chiaro.

MAKE AMERICA… AGAIN

Se Trump è più orientato verso una revisione al ribasso dell’impegno globale americano per mettere l’America al primo posto (“America First”), Bolton – e il partito – è uno che invece potrebbe pressare l’acceleratore sull’hard power statunitense. E come lui potrebbero vederla l’ex speaker della Camera Newt Gingrich, l’ex funzionaria della Cia ai tempi di Reagan Clara Lopez, e il consulente sul medio oriente di origini libanesi, Walid Phares, o ancora Zalmay Khalilzad, ex ambasciatore americano in Iraq e in Afghanistan, o l’ex comandante delle forze speciali Stanley McChrystal; tutti in predicato di occupare posti tra sicurezza nazionale ed Esteri (che negli Stati Uniti spesso si sovrappongono) nella futura Amministrazione. E infine c’è il Pentagono: una fonte del Situation Report di Foreign Policy sostiene che i giochi sono ormai quasi chiusi, non sarà il controverso ex generale Michael Flynn a guidare il dipartimento della Difesa, come si diceva nei giorni scorsi (il rischio: il ripetersi dei problemi di gestione della leadership che lo hanno fatto fuori dalla guida della Defense Intelligence Agency anni fa), ma il senatore Jeff Session, di cui si attende solo l’ok. Politico scrive che sarebbe una decisione che porgerebbe “un ramoscello di ulivo” all’establishment della sicurezza nazionale repubblicana, preoccupata per mosse come quella su Gaffney e dai capricci di Kushner, che ha in Flynn un importante alleato all’interno del transition team. Una seria scelta per il Pentagono potrebbe essere la strada per maggiori aperture al partito, ma Session è comunque uno che non mette d’accordo tutti: il dibattito tra i cosiddetti “defense-hawk” e i “budget-hawk” divide il Gop sulle spese per la politica e Session fa parte di quest’ultimo gruppo, mentre Trump rientrerebbe nel primo, anche se intervistato da Defense News Session ha detto che “a malincuore” potrebbe cambiare linea per permettere la realizzazione dei piani di Trump, che prevede di aumentare di 55 mila unità l’Esercito di 20 mila i Marines, cosa che comporterebbe un’aumento del budget di 55 miliardi di dollari. Alternativa, Tom Cotton, trentanovenne senatore dell’Arkansas, veterano militare, dall’Iraq all’Afghanistan, noto per la volontà di reintrodurre le sanzioni all’Iran (altro hardliner: durante “Situation Room”, programma CNN condotto dal celebre Wolf Blitzer, ha difeso il waterboarding dicendo che non è una tortura). Oppure Stephen Hadley, uno dei pochi consiglieri sulla sicurezza nazionale di era Bush a non aver aspramente criticato l’attuale presidente eletto: Hadley dovrebbe avere il sostegno del nuovo Chief of Staff, il presidente del Comitato politico nazionale repubblicano Rience Priebus.

Come si bisticcia nello staff di Donald Trump su difesa e sicurezza nazionale

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