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Non è la prima volta che Milano nella sua storia fa i conti con grandi numeri di rifugiati. Accadde durante la prima guerra mondiale, in particolare nel 1917 dopo la rotta di Caporetto, quando con l’inverno alle porte, fu necessario provvedere in brevissimo tempo alla necessità di 30.000 profughi che abbandonavano le loro case di fronte all’avanzata degli austriaci. L’emergenza venne meno con la fine della guerra e il ritorno delle famiglie venete alle loro terre. Questa vicenda mise in luce un’eccezionale sforzo di solidarietà nazionale guidato dal Sindaco Caldara con il consenso dell’intera cittadinanza e il sostegno di tutte le forze politiche.

Nel secondo dopoguerra Milano ha accolto flussi migratori imponenti di cittadini italiani provenienti da realtà sociali e culturali molto diverse ma che ponevano comunque l’esigenza di una loro “integrazione”,  nel tessuto civile della città. L’economia milanese, alla fine degli anni cinquanta era ricca di grandi e piccole fabbriche e aveva bisogno di manodopera non necessariamente qualificata (tipico l’operaio alla linea di montaggio) e apriva le sue porte anche alla forza lavoro femminile. Alle istituzioni toccava un compito gravoso, quello di rendere disponibili  alloggi a canoni  accettabili, di garantire l’accesso alle scuole a bambini che iniziavano a conoscere un mondo del tutto diverso (e migliore) di quello che avevano lasciato, di fornire l’assistenza socio-sanitaria ai nuovi arrivati, di potenziare un trasporto pubblico che doveva rispondere a esigenze crescenti.

La battaglia fu vinta sia per la lungimiranza degli amministratori del tempo, sia perché gli interessi dei residenti e degli immigrati erano non solo compatibili ma funzionali alla crescita economica, sia per il fatto che Milano, città naturalmente aperta, trasmetteva la sua “cultura del lavoro e dell’emancipazione”  a persone che venivano da storie di povertà e di sfruttamento offrendo loro un futuro diverso.  Di fronte all’attuale situazione di emergenza, che somma ai profughi veri e propri un numero ben maggiore di emigranti “economici” stranieri, la città e la sua amministrazione ha risposto con generosità e coraggio. Ma le condizioni sono diverse è non è il terrorismo islamico, che pure rende più complessa la situazione, a fare la differenza.

Sarebbe  un errore fatale circoscrivere questa vicenda ad una questione di semplice solidarietà senza un’analisi della natura del fenomeno, della sua durata e  della sua dimensione. Quello che è cruciale mettere in luce, per assumere decisione idonee ad evitare conseguenze pericolose sia di natura sociale che di ordine politico, è fino a che punto saranno considerate compatibili dagli italiani (e soprattutto dalla parte economicamente più disagiata della popolazione), rispetto alla difesa delle proprie condizioni di vita le risorse destinate all’assistenza di rifugiati ed immigrati. E in pari misura bisogna sapere che di fronte ad un numero significativo di persone, in gran parte giovani, che a lungo andare non vede alcuna prospettiva se non quella di un’assistenza pura e semplice per i bisogni essenziali è inevitabile che l’illegalità si faccia strada. Il massimo che possiamo permetterci è di offrire a queste persone, che già percepiscono una indennità giornaliera, un lavoro socialmente utile (come  pulizia o  piccole manutenzioni) per un euro all’ora.

Nascerebbe davvero un guaio se l’opinione pubblica percepisse che un  progetto solidaristico si è trasformato in un pericolo per la sicurezza dei cittadini. Il problema è che, con la chiusura delle frontiere tra Italia ed Europa sta fallendo miseramente il programma di redistribuzione negli altri paesi dei profughi sbarcati in Italia. Da questo punto di vista non il fronte del semplice no! è improduttivo.

Era molto discutibile l’utilizzo del campo base Expo ma il fatto che si sia trovata (per il momento) una soluzione diversa non cambia sostanzialmente le cose. Il fenomeno migratorio, nelle sue varie componenti, è destinato a divenire permanente e strutturale perché le cause del fenomeno, le guerre, le guerriglie  e il sottosviluppo favorito dalla corruzione dei Governi locali sembrano persino aggravarsi. Per di più ormai è chiaro che il passaggio in transito dei migranti è una pura illusione  di fronte alle efficaci barriere di polizia erette ai confini settentrionali d’Italia. L’impegno di Sala e la solidarietà della città sono oggi in grado di governare il fenomeno. Ma fino a quando?

Certo si possono distribuire meglio in tutto il paese le persone interessate, tenendo d’occhio quell’area grigia del “business sociale”, ma è necessaria la consapevolezza che il  combinato disposto del superamento delle ragionevoli capacità di accoglienza e delle perduranti emergenze economiche e sociali potrebbe produrre danni irrimediabili togliendo ulteriore credibilità alle istituzioni e rafforzare populismo e qualunquismo.

Per fortuna c’è ancora tempo per definire una strategia di uscita da questa situazione. Occorre però ricostruire, d’intesa con gli altri paesi europei, linee comuni che vadano al di là della pur essenziale lotta al terrorismo. Occorre distinguere davvero tra migranti in cerca di lavoro e profughi di guerra e avviare quelle operazioni di rimpatrio che oggi sono sostanzialmente impensabili. Ma è necessario ancor di più impedire che l’esodo dalle coste nord africane continui.

E’ evidente che il rapporto costruttivo con tutti i governi dei paesi del sud del Mediterraneo, a partire dalla Libia dove è essenziale sconfiggere definitivamente lo Stato Islamico e le bande criminali , deve portare ad invertire il flusso delle migrazioni dal centro dell’Africa lavorando a progetti veri di sviluppo economico di questi paesi. Per  impedire che gli scafisti continuino nei loro affari bisognerà costruire  veri ed efficienti centri di accoglienza e di assistenza proprio nei luoghi da dove oggi partono i barconi e dove, una volta intercettati, dovranno essere ricondotti. Solo così finiranno gli sbarchi sule coste italiane.

E’ più o meno lo stesso modello concordato alla UE con Erdogan, con la differenza,  non marginale, che l’Europa potrebbe in questo caso garantire una migliore assistenza ai profughi. Certo si può obiettare che le variabili politiche sono numerose e che il compito è arduo. I rischi che corriamo sono però ancor più inquietanti.

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