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Non avevo dubbi, in verità, ma la notizia del ricorso contro la sentenza di assoluzione di Calogero Mannino, finalmente depositata dopo quasi un anno di attesa dall’annuncio del verdetto, è arrivata puntuale come il mitico treno svizzero. Eppure è ugualmente clamorosa.

I signori pubblici ministeri di Palermo rimangono tetragonicamente convinti che, minacciato di morte dalla mafia, l’ex ministro democristiano si fosse attivato nella stagione delle stragi perché lo Stato trattasse con i boss mafiosi accettandone le condizioni indicate nel cosiddetto papiello consegnato agli inquirenti dal figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, Massimo. Condizioni per smetterla di assassinare magistrati, politici e gente comune con bombe sparse a destra e a sinistra, anche tra chiese e monumenti civili.

Fonti più o meno compiacenti hanno cercato di spiegare che la decisione sul ricorso deve ritenersi naturale, “quasi obbligata”, per non compromettere –con un’assoluzione di Mannino che dovesse diventare definitiva – la sorte del processo in corso da più di tre anni contro gli altri imputati. Che, diversamente dall’ex ministro, non hanno scelto il rito abbreviato e sono ancora sotto giudizio, con una sfilza di testimoni che sfilano davanti alla Corte d’Assise nella ormai consueta indifferenza dei giornali. Che neppure ne riferiscono, a meno che all’elenco dei testi non si aggiunga improvvisamente qualche nome eccellente. Come già accadde nel 2014 con l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, interrogato al Quirinale in una udienza peraltro costata chissà quanto ai contribuenti italiani, e come potrebbe tornare ad accadere se davvero i giudici palermitani decidessero di tornare sul colle più alto di Roma per interrogare anche il successore di Napolitano, cioè Sergio Mattarella.

L’attuale capo dello Stato ha avuto l’inconveniente, diciamo così, di essere stato vice segretario della Dc nella primavera ed estate del 1992, quando nella formazione del primo governo di Giuliano Amato, dopo le elezioni politiche di aprile, il democristiano Enzo Scotti fu spostato dal Ministero dell’Interno al Ministero degli Esteri e il socialista Claudio Martelli rischiò di essere rimosso dal Ministero della Giustizia. Dove invece riuscì a rimanere avendo chiesto al segretario del suo partito, Bettino Craxi, di poter continuare nell’opera del suo illustre collaboratore Giovanni Falcone, appena assassinato dalla mafia con la moglie e quasi tutta la scorta.

Sospettosi che quegli avvicendamenti fossero stati fatti o tentati per impedire ostacoli alla presunta trattativa con la mafia, e insoddisfatti, evidentemente, delle spiegazioni ottenute, su quei passaggi della politica italiana, dall’ex presidente del Consiglio Amato, dall’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani e dal suo predecessore Ciriaco De Mita, leader della corrente di cui faceva parte il vice segretario Mattarella, ci sono ricercatori della verità interessati ad ascoltare anche quest’ultimo. Che, quanto meno, poteva essere scomodato prima, quando le procedure avrebbero peraltro reso meno complicata e costosa, ma anche meno eclatante l’audizione: non da copertina, ma da pagina interna di un giornale.

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I giornali. Ecco l’altro aspetto, forse il più sconcertante di tutti, anche del ricorso in appello, in questa vicenda della sentenza di assoluzione di Mannino. Che, peraltro, non è la prima volta che esce assolto da un processo di mafia. Gli è già capitato infatti, e in via definitiva, per il solito, discusso, controverso reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Stavolta invece l’accusa è di minaccia a corpo dello Stato, o qualcosa di simile, sempre comunque per favorire alla fine la mafia.

La notizia della nuova assoluzione dell’ex ministro democristiano, dopo l’annuncio del deposito della “bozza” di sentenza, non è stata trovata sulla prima pagina di nessuno dei cosiddetti giornaloni. Non un rigo, per esempio, sulla prima pagina del Corriere della Sera, che pure il giorno prima, tra foto, notizie e commenti sulle scosse che avevano fatto e fanno tuttora tremare tutta Italia, aveva trovato lo spazio per un bel richiamo di una lettera del senatore a vita Mario Monti, che ribadiva la sua scelta per il no referendario alla riforma costituzionale.

Ora, nonostante il ricorso annunciato dagli inquirenti, le cose sono andate anche peggio. I giornaloni hanno avuto altro a cui pensare: per esempio al complotto, o qualcosa di analogo, come lo considera il solito Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, che sarebbe in corso contro il referendum costituzionale del 4 dicembre. Ma vi torneremo fra poco.

Ai giornaloni, avari di spazio questa volta per la cronaca giudiziaria, forse non è piaciuto il sarcasmo riservato, giustamente, al sistema mediatico italiano dalla giudice Marina Petruzzella. Che nell’assolvere Mannino ha strapazzato giornali e televisioni che avevano steso tappeti rossi sotto il “luminoso cammino” di Massimo Ciancimino, e del suo “manipolato” papiello, cui gli inquirenti hanno creduto pur avendo dovuto alla fine inserire il giovanotto fra gli imputati dell’interminabile processo della cosiddetta trattativa. Una sentenza, quella della giudice Petruzzella, della quale naturalmente il giornale di Travaglio si è occupata, in un richiamo di prima pagina, solo per lamentarne “tutti i buchi”. Che probabilmente diventeranno voragini col passare dei giorni, e delle informazioni di fonte giudiziaria.

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Ma veniamo adesso al complotto, o qualcosa di simile, contro il referendum costituzionale del 4 dicembre. Eccone l’annuncio, testualmente, nel titolo più vistoso del Fatto Quotidiano, in un nero che più nero non si può: “Fuga dalla sconfitta. Renzi e Napolitano vogliono rinviare il voto a primavera”. C’è anche il clamoroso annuncio di un “sondaggio” effettuato per conto dei due complottardi su B., inteso naturalmente come Silvio Berlusconi. Che avrebbe detto “no (per ora)”, essendo evidentemente sospettabile di avere una voglia matta di aiutare pure lui Renzi, come gli amici di una vita o di mezza vita, quali dovrebbero essere considerati, rispettivamente, Fedele Confalonieri e Gianni Letta.

Il complotto, sia sa, in Italia, ma forse non solo in Italia, ha un fascino mediatico irresistibile. Ma questo è di una natura specialissima, inedita. Esso nasce con una iniziativa non di Renzi, non di Napolitano, non di qualche altro schierato sul fronte del sì referendario alla riforma costituzionale, che essendo in pericolo per la prevalenza dei no nei sondaggi, avrebbe bisogno di un rinvio come della manna. Nossignori, l’iniziativa è stata presa col solito ricorso giudiziario, mirante a portare davanti alla Corte Costituzionale la questione di legittimità sul quesito referendario com’è stato formulato e sulla legge che l’ha permesso, dal presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida, schieratissimo come il collega Gustavo Zagrebelsky per il no alla riforma.

Ma questo complotto, scusatemi, essendo questa la partenza, sarebbe una boiata pazzesca, già trattata come tale del resto da Renzi quando ha liquidato come una boutade giornalistica la proposta del rinvio del referendum, stavolta a causa del terremoto, avanzata da Pier Luigi Castagnetti. Che, essendo ormai un politico in pensione, viene valorizzato dal sistema cosiddetto mediatico come “amico di Mattarella”: il complottardo forse più occulto, di cui il giornale di Travaglio, una volta tanto, non ha osato fare il nome, almeno nel titolo di prima pagina.

Marco Travaglio e Antonio Padellaro

Vi racconto i fantasiosi complotti contro il referendum del 4 dicembre

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