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Matteo Renzi ha colto l’occasione offertagli da un confronto con Eugenio Scalfari nella festa ormai annuale delle “idee” della Repubblica, quella naturalmente di carta, per tentare una trattativa politica con chi gli contesta la riforma costituzionale ed è pronto a votare no nel referendum d’autunno se non ci fosse un suo impegno a modificare la nuova legge elettorale della Camera. Che, nota come Italicum, assegna nell’unico ramo del Parlamento destinato ad accordare o negare la fiducia al governo il premio di una trentina di seggi alla lista più votata. Cosa che scatterebbe al primo turno se la prima lista raggiungesse almeno il 40 per cento dei voti, al secondo turno diversamente, con un ballottaggio fra le prime due. Liste – si badi bene – e non coalizioni, come poteva accadere con la vecchia legge chiamata meno nobilmente Porcellum.

A Scalfari, e ai partiti o correnti del Pd che la pensano come lui, convinti che l’Italicum renderebbe Renzi “padrone” assoluto della scena e della politica, un dittatore di stile moderno, capace magari di comandare senza bisogno di ricorrere ai carri armati e alle polizie segrete di una volta, il presidente del Consiglio ha offerto, in cambio del loro sì al referendum d’autunno, una legge che impedisca a tutti, e non solo a lui, di ricoprire la carica di capo del governo per più di due mandati. Cioè, per più di dieci anni, quanti sono quelli di due legislature ordinarie. Anni però che potrebbero diventare anche di meno se una legislatura dovesse finire prima per qualche maledetta crisi, non escludibile – va ricordato ai critici del premio di maggioranza dell’Italicum – perché con una trentina di seggi di scarto con le opposizioni un governo è assicurato ma non blindato alla morte. La dissidenza di una trentina di parlamentari, pari a circa il 10 per cento della maggioranza, per quanto attento possa e voglia essere Renzi o un altro al suo posto nella formazione delle liste elettorali e del conseguente gruppo parlamentare di Montecitorio, non si può escludere.

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L’offerta, chiamiamola così, di Renzi è stata accompagnata con un giudizio sull’Italicum che a prima vista, almeno, salva la solita furbizia di un negoziatore abile, potrebbe sembrare un’altra concessione a critici ed avversari. In particolare, dopo avere detto tante volte che lui a cambiare la nuova legge elettorale non ci pensa proprio, considerandola una valvola di sicurezza per la governabilità, stabilità e quant’altro, ha rivelato di non esserne “innamorato”.

Se fosse dipeso da lui, senza essere costretto alle solite mediazioni parlamentari, e ai relativi compromessi, peraltro anche col partito di Silvio Berlusconi, sfilatosi dal cosiddetto Patto del Nazareno solo dopo il passaggio più decisivo della nuova legge elettorale, sarebbe bastato un restauro del sistema del collegio uninominale. Con il quale si andò alle urne nel 1994, quando peraltro Berlusconi riuscì a sconfiggere, a sorpresa, la coalizione di sinistra che il segretario dell’allora Pds-ex Pci Achille Occhetto aveva allestito chiamandola “una gioiosa macchina da guerra”, in marcia con una banda che suonava lo spartito delle Procure della Repubblica impegnate nelle indagini sul finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica.

Quel sistema si chiamava, in una traduzione maccheronica in latino del nome del deputato relatore della legge approvata dopo il referendum elettorale del 1993 contro il proporzionale, Mattarellum. Cosa, questa, che dovrebbe avere inorgoglito l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella appunto, sentendola evocare da Renzi. Che così è riuscito ad attirare con una fava due piccioni, anzi tre: non solo Scalfari, il suo interlocutore più diretto, ma anche il presidente della Repubblica in carica e quello emerito, Giorgio Napolitano, uniti nella preoccupazione che il capo del governo abbia troppo personalizzato lo scenario politico del referendum sulla riforma costituzionale annunciando o minacciando le dimissioni, e una conseguente crisi dagli imprevedibili sviluppi, in caso di esito negativo.

Di questa eventualità Renzi è tornato a parlare, per nulla intimidito dalle critiche, anche con lo scettico Scalfari. Al quale ha ripetuto ciò che va dicendo da tempo, che cioè in caso di una sconfitta referendaria lo stesso Scalfari e tanti altri dovrebbero preoccuparsi non tanto del suo preannunciato “ritorno a casa”, fra le gioie di grillini, leghisti, berlusconiani e vendoliani, quanto del ritorno del Parlamento e del Paese alla pratica degli “inciuci” e alla “ingovernabilità”. Per non parlare della sfiducia che semineremmo in Europa, dove “non ci filerebbe più nessuno”, a dispetto dei tentativi che lui sta facendo, e rilancerà in agosto incontrando la cancelliera tedesca, per fare passare l’Unione “al paradigma di più investimenti e meno austerità”.

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A trattenere Renzi non è riuscito neppure il pericolo, evocato da Scalfari, che dell’effetto combinato fra riforma e costituzionale e Italicum possa trarre vantaggio alle prossime elezioni il movimento di Beppe Grillo, visti i successi dei pentastellati nelle amministrative del 5 giugno e quelli possibili nei ballottaggi comunali del 19, a cominciare da Roma.

No, Renzi non ha voluto sembrarne preoccupato. E facendo di fatto a Berlusconi, alla vigilia di un serio intervento al cuore, i migliori auguri, intesi anche in senso politico, pur senza prendersi l’onere di formularli in modo esplicito e diretto, si è detto convinto che alle prossime elezioni politiche il ballottaggio, se vi si arriverà senza che nessuno raggiunga il 40 per cento dei voti al primo turno, riguarderà il suo Pd e una lista di centrodestra: quella appunto perseguita anche nel suo letto d’ospedale dall’ex presidente del Consiglio, nonostante le divisioni e i “capricci” dei suoi vecchi alleati.

Matteo Renzi

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