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Nel pasticciato piatto grillino di ajo, ojo e Campidojo, per dirla con Sergio Staino, c’è qualcosa che molti hanno omesso di ricordare. Ma che la sindaca grillina Virginia Raggi ha appena rivendicato, forse imprudentemente, in una intervista al Corriere della Sera: “Io sono avvocato”.

La signora, pur dimenticando di scriverlo nel curriculum pre-elettorale, fece pratica forense nello studio del berlusconianissimo Cesare Previti. Che all’epoca del primo governo dell’allora Cavaliere fu dirottato dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro dal Ministero della Giustizia, dove il presidente del Consiglio lo aveva proposto con baldanza, al Ministero della Difesa. Dodici anni dopo Previti sarebbe stato condannato in via definitiva per corruzione giudiziaria, arrestato per un po’, costretto a dimettersi da deputato e poi ammesso a scontare la pena ai servizi sociali.

Lo studio legale dell’allora incensurato difensore di Berlusconi nelle cause d’affari si trovava in via Cicerone, a Roma, a due passi dal Palazzaccio, la sede cioè della Corte di Cassazione. Esso entrò nelle cronache politiche quando Virginia Raggi, nel 1994, non aveva ancora compiuto 16 anni, e non poteva quindi neppure immaginare di affacciarvisi dopo la laurea per farvi apprendistato.

Fu in quello studio che Berlusconi, fresco d’incarico a presidente del Consiglio, su suggerimento dei missini Ignazio La Russa e Mirko Tremaglia, incontrò Antonio Di Pietro, ancora sostituto Procuratore della Repubblica a Milano e magistrato simbolo dell’inchiesta Mani Pulite su Tangentopoli, per offrirgli il Ministero dell’Interno.

Sarebbe stato per Berlusconi un colpaccio, data la popolarità di Tonino, come gli amici chiamavano Di Pietro. Che aveva messo fuori gioco Bettino Craxi, amicissimo del nuovo presidente del Consiglio e già riparato nella sua casa tunisina per sottrarsi all’arresto che riteneva scontato dopo la fine del mandato parlamentare e della conseguente immunità, ma era considerato dai missini un anticomunista affidabile perché loro elettore. Ma Di Pietro rifiutò l’offerta di governo. E non perché diffidasse già di Berlusconi, che alla fine di quello stesso anno si sarebbe offerto al capo della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli, di “sfasciare” in un interrogatorio, ma perché lo stesso Borrelli gli aveva chiesto abbastanza perentoriamente di non saltare così d’improvviso dalla magistratura alla politica.

Berlusconi ricavò, a torto o a ragione, l’impressione che Di Pietro, fermato dal suo superiore in Procura sulla strada di un incarico ministeriale, non avrebbe saputo resistere all’offerta di un incarico non politico ma amministrativo. E tentò già dopo qualche mese di portarlo al vertice dei servizi segreti, senza tuttavia riuscirvi anche per ulteriori complicazioni sorte nei rapporti con la magistratura milanese. Che insorse contro un decreto legge, peraltro già firmato dal pur diffidente presidente della Repubblica, restrittivo nel ricorso alla carcerazione preventiva. Un provvedimento nel quale la Procura milanese vide e denunciò un rischio per lo sviluppo delle sue inchieste. E lo gridò con tale forza da indurre i leghisti, rappresentati al governo, fra gli altri, dal ministro dell’Interno Roberto Maroni, a ritirare l’adesione, per cui il decreto venne trasformato in un disegno di legge inoffensivo, destinato alla polvere degli archivi.

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Per quanto arrivatavi ben dopo quei fatti, ma comunque quando già Previti era imputato in due processi che si sarebbero conclusi con la condanna, Virginia Raggi si sentì rimproverare nella corsa al Campidoglio la sua esperienza nello studio legale dell’ormai ex ministro. I pur esigenti e schifiltosi militanti del movimento grillino ingoiarono però il rospo prendendo la parte buona della vicenda, il fatto cioè che la loro candidata fosse appunto un avvocato, come ha appena rivendicato l’interessata.

Dio solo sa, in effetti, quanto bisogno ci sia in Campidoglio, con tutti gli scandali che l’hanno attraversato, di un sindaco che s’intenda di affari legali di suo, senza affidarsi mani e piedi agli uffici competenti, consapevole – come pare abbia detto di recente in una riunione con gli amici di partito – che le responsabilità penali e amministrative sono sue, per cui a rischiare è il proprio deretano. Eppure con l’assunzione della magistrata Carla Raineri a capo di Gabinetto, bocciata dall’Autorità anti corruzione e sfociata nelle dimissioni anche del “super” assessore al Bilancio e alle aziende partecipate Marcello Minenna, la sindaca come avvocato ha fatto cilecca. E si è fatta tanto prudente da sostituire Minenna con un altro magistrato, stavolta contabile, assecondando l’andazzo lamentato più volte da Luciano Violante di preferire le toghe ai politici.

Si spera che la competenza forense della sindaca dia migliori frutti nelle prossime occasioni. Se lo debbono augurare anche i suoi superiori politici, consapevoli che il movimento di Grillo si gioca a Roma il suo futuro e che la storia del complotto dei poteri forti gridata all’esplosione del pasticcio non ha le gambe lunghe. Il primo a rinunciarvi, saggiamente, è stato fra i dirigenti grillini il vice presidente della Camera Luigi Di Maio. Che ha ripiegato sulla più ragionevole spiegazione dell’inesperienza, ammessa dall’interessata riconoscendo “qualche ritardo ed errore”, e sul conseguente auspicio che la sindaca si faccia le ossa in tempo per non cadere rovinosamente trascinandosi appresso tutto il partito, ed anche le grandi ambizioni di governo dello stesso Di Maio. E pure quelle di Dibba, come gli amici chiamano Alessandro Di Battista, tutto preso in questo periodo dalla campagna referendaria del no alla riforma costituzionale di Renzi.

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Dal fronte referendario del no alla riforma costituzionale debbo dire che la notizia più divertente l’ha data Marco Travaglio riferendo, sconsolatissimo, delle feste riservategli da un cameriere. Che, servendolo tra un dibattito e l’altro nei raduni toscani dei suoi lettori, gli ha confidato che voterà sì, probabilmente convinto in tal senso a furia di sentirne le critiche alle nuove norme: un boomerang che avrà fatto finalmente piacere a Renzi, se qualcuno ha avuto la cortesia di informarlo in Cina.

Meno divertente, per la sua oggettiva supponenza, è invece la minaccia del presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky di rinunciare all’insegnamento del diritto costituzionale nel caso in cui il no alla riforma dovesse perdere. Al professore piace evidentemente l’antiquariato.

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