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Scudo fiscale, voluntary disclosure e prescrizione. Sono i fattori da considerare per “giudicare” la liceità o meno dei nomi nel mirino dei Panama Papers.

Da 800, infatti, gli italiani presenti nei Panama Papers che avrebbero commesso reati fiscali potrebbero essere meno della metà per diverse ragioni: lo scudo fiscale del 2009, la collaborazione volontaria del 2015 fino ad arrivare, poi, alla possibile prescrizione dei reati commessi tra 1975 e il 2003-2004. L’Agenzia delle entrate, dunque, dovrà fare un lavoro di incrocio di informazioni per stabilire se le condotte degli 800 italiani (o forse più) configurino reato oppure no, e lo potrebbe fare senza attendere convenzioni internazionali o rogatorie.

Intanto, tra gli effetti delle rivelazioni dell’inchiesta dell’Icij (International consortium of investigative journalists), oltre alle dimissioni del premier islandese, ci sarebbe – per l’Italia – lo stop dei lavori sulla riapertura della collaborazione volontaria per ragioni di inopportunità politica.

STOP ALLA VOLUNTARY DISCLOSURE

È il Sole 24 Ore a spiegare perché le rivelazioni del Panama Papers avrebbero bloccato l’ipotesi di riapertura del rientro dei capitali: “A pesare su uno stop dei lavori per una riapertura della disclosure – si legge nell’articolo di Marco Mobili e Giovanni Parenteè l’inopportunità politica di fornire una copertura preventiva a eventuali illeciti fiscali così come al riciclaggio e al nuovo reato di autoriciclaggio“. La procedura di rientro dei capitali, infatti, prevedeva la possibilità di evitare le sanzioni penali per alcuni reati tributari di riciclaggio e autoriciclaggio, pagando però tutte le imposte dovute. Le entrate derivanti dalla disclosure sono state nel 2015 di circa 3,8 miliardi, per questa ragione, si legge ancora sul Sole, il governo aveva pensato di riprendere in mano la procedura.

LO SCUDO FISCALE (O TOMBALE) DEL 2009

La sola presenza nelle liste dei Panama Papers, dunque, non comporta di per sé un reato (così come sottolineato anche dall’avvocato Alessandro De Nicola sentito da Formiche.net). Tra gli 800 italiani coinvolti nell’inchiesta giornalistica, alcuni potrebbero aver sfruttato le possibilità offerte dallo scudo fiscale (tombale) del 2009. “lo scudo di Berlusconi-Tremonti era anonimoha scritto Repubblica, di carattere tombale, penale e amministrativo: chi ha in mano questo «lasciapassare» potrà opporlo alla GdF e passarla liscia”.

LO SPETTRO (O SPERANZA) DELLA PRESCRIZIONE

Il lavoro dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di Finanza per accertare se e quali reati siano stati commessi dai contribuenti italiani potrebbero scontrarsi anche con la prescrizione. Lo spiega Roberto Petrini sul quotidiano diretto da Mario Calabresi: “Per gli addebiti tributari la regola (sulla prescrizione ndr) è 4-5 anni, raddoppiabili a 8-10. Questo significa che l’esportazione di capitali avvenuta tra il 1975 e il 2003-2004, dal punto di vista tributario non è più accertabile e perseguibile: quando la Guardia di Finanza o l’Agenzia delle entrate faranno la contestazione l’esportatore di capitali, eventuale evasore – conclude Petrini –, potrà opporre attraverso i propri legali l’avvenuta prescrizione“.

IL LAVORO DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE

Per accertare eventuali reati, la Procura di Torino guidata da Armando Spataro, che martedì ha aperto le indagini che prendono avvio dal reato di riciclaggio, dovrà procedere con la verifica a tappeto su ogni singolo nome della lista. A incidere sulle verifiche saranno i trattati internazionali, multilaterali o bilaterali, se esistono, se no bisognerà affidarsi a procedure lunghe come le rogatorie. Tuttavia, spiega Cristina Bartelli su Italia Oggi, i documenti del Panama leak rischiano di essere considerati invalidi dai giudici, perché “scontano un peccato originale della fonte di provenienza illecita“. Ma, prosegue Bartelli, “gli 007 fiscali di casa nostra stanno costruendo attraverso la voluntary disclosure, senza dover aspettare hacker fulminati sulla via della redenzione fiscale” un quadro sul patrimonio informativo sulla riemersione dei capitali.

ACCENDERE UN FARO SU PANAMA

L’Agenzia delle entrate potrebbe, però, accendere un faro su Panama senza bisogno attendere standard dell’Ocse, rogatorie o convenzioni internazionali incrociando le informazioni sui flussi di bonifici “da e verso l’estero conservati nelle statistiche dell’Uif (Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia) e muovere la pedina dell’articolo 2 del dl 167/1990 come modificato nel 2013 sulle indagini finanziarie a tappeto presso gli istituti italiani” si legge su Italia Oggi. L’articolo prevede che “al fine di garantire la massima efficacia all’azione di controllo ai fini fiscali per la prevenzione e la repressione dei fenomeni di illecito trasferimento e detenzione di attività economiche e finanziarie all’estero, l’unità speciale […] e i reparti speciali della Guardia di finanza […], possono richiedere, in deroga ad ogni vigente disposizione di legge, […] di fornire evidenza delle operazioni intercorse con l’estero anche per masse di contribuenti e con riferimento ad uno specifico periodo temporale; l’identità dei titolari effettivi rilevati”, recita il testo della norma.

Una norma sulla carta micidiale – conclude Bartelli del quotidiano giuridico ed economico del gruppo Class – per il contrasto all’evasione che però è rimasta solo sulla carta“.

Agenzia delle Entrate, Panama Papers e le verità fatue

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