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Il primo appuntamento, il referendum sulle trivelle del 17 aprile, doveva essere quello più tranquillo. Si stava andando verso il non raggiungimento del quorum, per la gioia del governo che, pur non prendendo una posizione netta (col Pd propenso per l’astensione), ha auspicato che le trivelle petrolifere continuino a fare il loro lavoro. Ora, invece, dopo l’inchiesta sull’ex ministro Federica Guidi, il referendum di aprile rischia di diventare un caso pericoloso per presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che ha di fronte altri due appuntamenti cruciali: le elezioni amministrative di giugno e il referendum costituzionale previsto per l’autunno. E proprio la vittoria del fronte No-Triv rischierebbe di essere il primo passo di una Via Crucis che potrebbe concludersi con la crocifissione sulle riforme.

Ma partiamo dalla consultazione petrolifera. Al momento, secondo i sondaggi, il quorum si avvicina ma non è raggiunto. In caso di vittoria del No o di mancato quorum, l’esecutivo si riterrebbe soddisfatto. La vittoria del Sì, invece, suonerebbe come un campanello dall’allarme per Palazzo Chigi. Renzi, però, è stato furbo a non caricare troppo politicamente questo voto. Il premier considera la ricerca petrolifera nel nostro Paese molto importante, ma ha preferito non mettere la faccia sulla consultazione proprio per evitare di prestare il fianco ai suoi oppositori, primo fra tutti il governatore pugliese Michele Emiliano, che si è buttato a capofitto nella causa No-Triv. Qualcuno sussurra addirittura ci sia lui dietro l’attivismo della procura di Potenza nei confronti di Tempa Rossa. Malignità democrat, si dice in Parlamento. Del resto è lecito pensare che Emiliano stia sfruttando la battaglia sulle trivelle per lanciare la sua sfida al segretario del Pd, preparando la sua discesa in campo al prossimo congresso come antagonista di Renzi e come principale sponsor di un candidato alternativo. Di sicuro Emiliano è uno dei maggiori oppositori del premier e si prepara a giocare le sue carte in vista della lotta per la segreteria.

Più insidiose, per Renzi, sono le elezioni comunali di giugno, dove una battuta d’arresto del centrosinistra indebolirebbe parecchio la sua leadership, perché inevitabilmente si farebbe il confronto con il 40,8 per cento delle elezioni europee 2014. Se il centrosinistra terrà Milano, Roma e Torino, Renzi potrà cantare vittoria. Finora è stato molto fortunato. A Roma e Torino, infatti, il centrodestra sta facendo un regalo al Pd presentandosi diviso, specie nella Capitale dove, dopo il disastro Marino, una coalizione unita avrebbe potuto spuntarla. E invece nelle due città il Pd dovrà guardarsi da un solo nemico: il Movimento Cinque Stelle. A Milano, invece, nonostante il bel recupero di Stefano Parisi, il favorito per Palazzo Marino resta Giuseppe Sala. Se invece dovesse perdere anche solo una di queste città, per Renzi si profilerebbe una sconfitta. Due sarebbe un disastro. E un cattivo risultato alle amministrative potrebbe tirarsi dietro anche il referendum sulle riforme. Per due motivi: innanzitutto perché i nemici del premier, dentro e fuori il Pd, rialzerebbero la testa e si butterebbero nella campagna referendaria con ancora più energia; in secondo luogo, segnerebbe la fine della luna di miele tra il premier e gli italiani. Perdere le amministrative dimostrerebbe che Renzi non è imbattibile e che la sua parabola ascendente si è conclusa.

Infine, il referendum sulle riforme, che invece il premier ha caricato politicamente legandolo alla sua permanenza a Palazzo Chigi. Un voto talmente importante che l’esecutivo ha già pronta una campagna pubblicitaria in grande stile con spot in tv e maxi-manifesti, mentre in molte città italiane si stanno strutturando i comitati per il Sì, operazione che sta seguendo direttamente Maria Elena Boschi. Inoltre, furbescamente, il governo non ha ancora stabilito la data del voto. E questo serve a lasciare gli avversari nell’incertezza: non è facile organizzare una campagna per il No se ancora non si sa quando si andrà alle urne. Qualcuno addirittura sussurra che Renzi vorrebbe anticipare il referendum prima della pausa estiva, ma l’ipotesi sembra irrealistica sia per i tempi tecnici, sia dal punto di vista strategico, perché legherebbe troppo il referendum alle amministrative. Se il risultato nelle città non dovesse essere brillante, qualche mese di distanza servirà al governo per rimettersi in carreggiata.

Alla fine di queste tre forche caudine per il premier, dunque, potremmo avere un Renzi col vento in poppa, ancora saldamente al timone del Paese, o un leader ridimensionato, magari costretto dalle sue stesse parole ad abbandonare Palazzo Chigi. Se così fosse, a quel punto Renzi potrebbe tentare il tutto per tutto chiedendo subito nuove elezioni. E il presidente della Repubblica Sergio Mattarella difficilmente potrebbe rifiutargliele. Per un solo motivo: un quarto governo consecutivo non eletto dal popolo sarebbe assai paradossale, secondo molti osservatori. Ma davvero Renzi si dimetterà in caso di sconfitta referendaria? Chissà.

Ecco le prossime 3 forche caudine per Matteo Renzi

Il primo appuntamento, il referendum sulle trivelle del 17 aprile, doveva essere quello più tranquillo. Si stava andando verso il non raggiungimento del quorum, per la gioia del governo che, pur non prendendo una posizione netta (col Pd propenso per l'astensione), ha auspicato che le trivelle petrolifere continuino a fare il loro lavoro. Ora, invece, dopo l'inchiesta sull'ex ministro Federica Guidi,…

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