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La voce di Sergio Staino, al telefono, è quella di sempre, con l’accento fiorentino che ha seppellito l’amiatino della sua infanzia, essendo il disegnatore nato a Piancastagnaio nel 1940. Il padre, anzi il babbo, di Bobo, prototipo di militante comunista che l’allora architetto Staino, insegnante nelle scuole medie, consegnò alle pagine di Linus, allora diretto da un altro toscano: l’elbano Oreste Del Buono.

Da allora, Bobo, la moglie e i figli, diventarono il paradigma familiare della sinistra storica, quella del Pci, poi Pds, poi Ds, poi Pd, rappresentandone le passioni e i dubbi, le gioie e le amarezze. Da tempo ormai Staino è entrato in rotta di collisione con i compagni di una vita, quelli che oggi danno corpo alla sinistra interna del Pd, per il loro crescente antirenzismo. E, alle rimostranze, non peritandosi dal consigliare loro di pensionarsi, Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani in particolare. Polemica portata avanti sostanzialmente con l’ironia e il sarcasmo delle sue vignette che oggi prendono corpo nel romanzo a fumetti edito da Giunti Alla ricerca della pecora Fassina. Una polemica che sembra destinata ad acuirsi, ora che la minoranza dem sembrerebbe tentata dal «no» al referendum.

Staino, lei sta facendo arrabbiare molti, a sinistra.

Un pochino la sinistra dem, è vero. Ma più di tutto, in questo momento, i grillini.

Ce l’hanno così tanto con lei?

Bè, non passa giorno che non mi indirizzino tweet offensivi e piuttosto volgari.

Che, credo, non scandalizzino uno come lei…

Esatto. Il problema è che dicono cose senza senso.

Del tipo?

Mi danno del venduto, mi dicono che parlo così perché sono “alla greppia de L’Unità”

. L’unico un po’ divertente e che ritorna assai spesso dice «Staino farebbe ridere di più se si cacciasse la matita nel culo». Io provo pena per l’umile e meravigliosa matita, ovviamente.

Senta però con lei, stavolta, vorrei parlare di Pd, ossia un po’ della sua storia, e di Matteo Renzi, che lei un tempo criticava, ma che oggi difende.

La cosa è paradigmatica.

E cioè?

Io fui tra i primissimi a tentare di ostacolare Renzi a Firenze, quando cercò di diventare sindaco ed oggi mi ritrovo a subire l’orribile accusa di «renziano». Orribile la ritiene almeno chi me la lancia, non certo io. Comunque non mi stava simpatico anche perché la sua storia rimandava un po’ a quell’atmosfera uscita oggi dall’inchiesta sull’Etruria: curia, Opus Dei, massoneria, verdiniani…

Presenze scomode che ora non vede più?

R. Beh, non è facile vederle ma sono zone grigie di intensità variabile trasversali a tutta la politica, anche in Toscana. Lo stesso Partito comunista non ne è mai rimasto estraneo. In più c’era l’atteggiamento di fondo.

Sempre di Renzi?

Sì. Renzi si presentava con un piglio da rampantino puntando diritto alla risoluzione di problemi senza tenere in conto i mezzi che utilizzava, anzi, sui mezzi direi che era proprio di bocca buona. Uno stile che i berlingueriani come me avevano sempre criticato in Bettino Craxi. L’arrivo di Renzi ha però coinciso con un altro fenomeno sviluppatosi nell’allora partito comunista.

Quale?

Un sostanziale abbassamento della qualità politica dei dirigenti, sia a livello nazionale che locale. Una abbassamento derivato dalle guerre intestine fra i più giovani eredi della segreteria Berlinguer, una guerriglia che ha portato a cooptare nelle sedi dirigenti persone più fedeli a qualcuno che persone dotate di un cervello un po’ scomodo. D’Alema è stato il capostipite di questo stile.

E gli altri?

Neppure gli altri ne sono stati immuni. Questo spiega la stanchezza e il risentimento di tanti militanti nei confronti di una dirigenza poco coraggiosa e poco innovativa. Renzi si presentò come il nuovo e l’idea del Rottamatore affascinò tantissimi nostri elettori.

Siamo ai tempi del famoso grido di Nanni Moretti in Piazza Navona: «Con una classe dirigente del genere, non vinceremo mai».

Precisamente, anche se Moretti, pur aprendo alla società civile, diede il via ad una forma di protesta distruttiva, che culminerà nel «vaffanculo» di Beppe Grillo e, oggi, di Matteo Salvini.

E su quest’onda di rinnovamento il Rottamatore stravinse.

Certo, anche perché, per quanto stabilito dallo statuto sulle primarie, tutti potevano andare ai gazebo e Renzi ne seppe approfittare.

In che modo?

Convincendo a venire a votare moltissime persone lontane dal Pd, verdiniani compresi.

Già allora, Staino? Ma si era nel 2009.

Eh ma Denis Verdini, a Firenze, non è mica nato ieri: è sempre stato una presenza forte e spregiudicata fin dai tempi in cui era nel partito repubblicano con Giovani Spadolini. Credo poi che nei confronti di Matteo abbia sempre avuto simpatia e ammirazione che andavano al di là delle scelte politiche.

Comunque alla fine, nel 2013, Renzi diventa segretario del suo partito. Come l’ha presa?

Come vuole che l’abbia presa? Come la deve prendere un qualunque democratico, ho rispettato l’esito delle urne: il segretario, mi son detto, è lui, Renzi, fino al congresso successivo, gli si dà una mano anche se in un rapporto dialettico, chiamiamolo cogestione critica. E, nel frattempo, si studia il perché si è perso, che cosa è cambiato nella società, e cosa si deve fare per costruire un’alternativa.

E invece?

E invece, questi, un minuto dopo, hanno cercato la rottura. E il primo a farlo è stato una delle persone che più ho amato e su cui avevo riposto le mie speranze di rinnovamento, ossia Gianni Cuperlo. Con mia grande delusione, lui prima ha rifiutato la presidenza del partito e poi, cosa ancor più grave, la direzione de L’Unità.

Effettivamente Renzi aveva fatto più di un passo.

Un grande atto unitario, cosa non facile per Renzi e che infatti, dopo, s’è ben guardato dal ripetere.

Cosa avrebbe significato, se Cuperlo avesse accettato?

Realizzare giornale aperto al dibattito e al confronto, un giornale che poteva esser letto sia dalla maggioranza e sia dalla minoranza, e che collegava il centro del partito e il governo con l’attività politica sul territorio.

Ma lui ha detto di no, appunto.

Gianni non ha accettato, anche perché, ne sono certo, ha subito forti pressioni da parte dei miei vecchi dirigenti. È nato subito il concetto di «traditore», quello spettro che guizza fuori ogni volta che un gruppo politico scivola nel settarismo. Adesso mi fanno ridere quando, in direzione, Cuperlo ed altri accusano Renzi di una gestione centralista e non collettiva, quando proprio loro, ogni volta che si è aperta una porta in questo senso, l’hanno accuratamente richiusa per paura di contaminarsi.

Qualche difetto a Renzi, lei glielo trova ancora?

Ma certo. Ha un background totalmente diverso dal nostro, credo che con Gramsci non c’entri nulla, e forse non ha neppure molta cultura alle spalle. Però…

Però?

Però gli va dato atto che almeno su certe cose ha le idee chiare e si muove con molto coraggio. La cosa che più mi ha commosso è la risposta al cardinal Angelo Bagnasco.

Sulle unioni civili…

Sì quando ha detto di aver giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo. Quanti dei nostri vecchi dirigenti, sempre impauriti di perdere il voto cattolico, avrebbero trovato un coraggio simile? E poi il modo con cui ha guidato lo scontro con le posizioni oltranziste dell’Europa sull’austerity, o come ha posto, sempre in sede europea, il problema delle migrazioni.

Passiamo ai difetti.

R. Sul fronte del lavoro non mi piace la facilità con cui liquida spesso il ruolo dei sindacati e come segretario non mi piace la trascuratezza che mostra nei confronti del ruolo del partito sul territorio.

Morale?

Che luci ed ombre di Renzi vanno prese in considerazione con serietà critica e con rispetto, non con gli urli isterici di gente che soffre perché ha perso una poltrona.

La critica sul sostegno di Verdini fa parte di queste urla?

Certo. Se ci sono persone che non sono assolutamente autorizzate ad urlare su questo sono proprio i miei amici della Sinistra dem. Il compromesso con persone lontane dal nostro partito come idee e comportamento è stato all’ordine del giorno. Abbiamo accettato e sopportato i voti di tantissimi Verdini.

(Intervista pubblicata su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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