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Visto che, in attesa della ripresa economica, se mai ne arriverà una vera e stabile, c’è da registrare solo una crescita costante del tasso d’incoerenza nel dibattito politico e mediatico, come ha appena registrato Michele Arnese spulciando un po’ di cronache e di editoriali recenti, mi permetto di compiacermi della coerenza dell’ex deputato ancora orgogliosamente comunista Marco Rizzo. Che è anche di grande e simpatica stazza fisica, alto come il sindaco di Torino Piero Fassino, cui contende il posto da sinistra, e non da solo, ma di peso almeno doppio, e di dieci anni più giovane: 56 lui, 66 l’altro, chiamato ironicamente grissino anche dagli amici per quel suo fisico sottile, e per la rima che fa il soprannome col nome.

Rizzo ha speso la sua coerenza, da centodieci e lode, non nella campagna elettorale contro il sindaco torinese uscente ma nella polemica scatenatasi sul figlio surrogato, diciamo così, della coppia omosessuale Nichi Vendola-Ed Testa, in giubilo nella lontana California, con grande eco in Puglia e in altre regioni d’Italia, per la nascita del figlio Tobia Antonio. Che è stato partorito col seme del compagno di Nichi da un’americana di origini indonesiane, ormai amica di famiglia, come ha voluto precisare lo stesso ex governatore pugliese per sottolineare l’aspetto interamente o prevalentemente affettivo della complessa e clamorosa vicenda. Il cui approdo giuridico in Italia non si sa se, come e quando potrà avvenire, tra leggi ancora da approvare e decisioni che comunque spetterebbero ai magistrati competenti, secondo le previsioni che si fanno sulle modifiche in cantiere per la disciplina delle adozioni.

Per quanto affettiva, è francamente difficile credere che sia stata priva di costi economici la maternità surrogata della quale la coppia Vendola-Testa ha avuto bisogno per coronare il suo sogno genitoriale. E ancora meno difficile credere che sia stata di costi contenuti, pur volendo considerare eccessive le cifre indicate da esperti per operazioni simili compiute da altre coppie, sempre in California: dai 150 mila ai 170 mila euro, stando almeno ad un articolo comparso sul Corriere della Sera. Cifre comunque che, più o meno alte che siano, hanno fatto saltare la mosca al naso di Marco Rizzo. Il quale da “vero comunista, non radical chic”, come ha voluto autodefinirsi, ha detto a Libero che a questo punto manca l’uguaglianza cara alla sua ideologia, e alla formazione culturale e politica di Nichi Vendola, per cui “il nodo è gay ricchi contro gay poveri”.

Il ragionamento, più ancora dei dubbi espressi anche dalla presidente della Camera Laura Boldrini, non fa una grinza. Per cui, ha continuato Rizzo, “chi ha i soldi compra e chi non li ha non compra”, implicazioni e dispute genetiche a parte. Cui l’ex deputato comunista tuttavia non si è sottratto.

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Marco Rizzo mi ha un po’ ricordato, ma sul versante politico opposto, un altro simpatico piemontese, di quattro anni più giovane di lui e di uguale stazza fisica: Guido Crosetto, ex sottosegretario alla Difesa.

Deluso da Silvio Berlusconi, che pure lo aveva portato in Parlamento e nel governo distraendolo dalle sue attività imprenditoriali, il povero Crosetto ritenne nella parte conclusiva della scorsa legislatura che gli obiettivi liberali mancati dall’ormai ex presidente del Consiglio potessero essere meglio raggiunti o garantiti da una nuova destra. Da lui intravista in un movimento che aiutò la giovane Giorgia Meloni a creare col nome altisonante e patriottico di Fratelli d’Italia, edizione evidentemente meno calcistica ma non meno combattiva della Forza Italia inventata nel 1994 da Berlusconi fra le macerie dei vecchi partiti di governo, spazzati via dalla pratica generale del finanziamento illegale della politica e dalla ruspa azionata a senso prevalentemente unico dalla magistratura.

E’ rimasta celebre una foto del buon Crosetto che su un palco congressuale, o simile, sollevava come una bambola fra le sue braccia la Meloni, fra gli applausi di un’assemblea che riteneva di avere trovato la coppia politica del secolo.

Anche se continuò a scommettere sul nuovo movimento, candidandosi nelle sue liste senza riuscire tuttavia ad essere rieletto a nessun livello politico, temo che già sollevandola quella volta sul palco Crosetto avesse avvertito che il liberalismo della Meloni pesasse meno del previsto o del necessario. Non a caso già nel 2014 egli lasciò baracca e burattini della politica e tornò a fare l’imprenditore a tempo pieno.

Il peso liberale della Meloni deve essere apparso a Crosetto uguale a quello di sinistra, almeno di una sinistra vera, non radical chic, avvertito da Rizzo in Vendola senza bisogno neppure di sollevarlo con le braccia da un palco.

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Ha avuto, in effetti, ben poco di liberale, e un po’ troppo di visione classista, l’ostinata resistenza della Meloni alla candidatura al Campidoglio di Alfio Marchini, da lei considerato proveniente da una famiglia troppo ricca e di sinistra per essere sostenuto dal centrodestra, specie nelle borgate dove la sorella dei Fratelli d’Italia pensa di essere popolarissima.

Le conseguenze di quell’ostinata resistenza sono sotto gli occhi di tutti: il ripiegamento di Berlusconi sull’ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso, la falsa partenza del candidato del centrodestra, le contestazioni e poi le primarie improvvisate dal segretario leghista Matteo Salvini, nelle quali – guarda caso – Marchini ha sorpassato tutti.

Il caos nel centrodestra capitolino è ormai tale da lasciare prevedere in giugno un ballottaggio tra il candidato ancora da scegliere nel Pd e la giovane candidata già trovata dai grillini, Virginia Raggi, che potrebbe attrarre i voti del centrodestra in libera uscita necessari a farle vincere la partita. Un bel capolavoro liberale, per la Meloni.

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