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La Commissione del parlamento francese che ha indagato sugli attentati che hanno colpito Parigi, quelli di Charlie Hebdo e quelli del 13 novembre, ha concluso che ci sono state lacune, “fallimenti di analisi” e vuoti nella condivisione delle informazioni, che avrebbero potuto aiutare a prevenire gli attacchi. In ultimo, tra le varie soluzioni proposte affinché si eviti il reiterarsi di questo genere di vicende orribili (la Francia è in cima alla lista degli obiettivi dei gruppi terroristici), gli inquirenti sono arrivati a consigliare che alcuni comparti di intelligence vengano fusi per migliorare la collaborazione interforze, dato che le agenzie sono spesso in competizione, evitare così sovrapposizioni.

I GUAI DELL’INTELL FRANCESE (E DEL GOVERNO)

“Non siamo all’altezza di quelli che ci attaccano”, c’è un problema strutturale e organizzativo, ha spiegato il conservatore Georges Fenech al NyTimes, non è una questione di preparazione dei singoli agenti. L’esempio di ciò che si intende: la polizia nazionale, che protegge le grandi città, e la Gendarmerie, un ramo dei militari che protegge le piccole città e le aree rurali, hanno divisioni di intelligence separate, che spesso non dialogano, e anzi entrano in competizione per chiudere per prime i casi. Fenech dice che dovrebbero essere fusi. Il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve, un pezzo del governo Hollande e dunque non amatissimo in patria (anche per via delle reazioni dure alle proteste sindacali seguite all’approvazione della nuova legge sul lavoro), s’è difeso dicendo che le raccomandazioni della Commissione erano già incluse in un piano di revisione promosso dall’esecutivo dopo i fatti dello scorso anno. Amedy Coulibaly, l’uomo che prese d’assalto il supermercato ebraico nelle ore successive all’attacco di Charlie Hebdo, era noto ai celerini che lo avevano tenuto in custodia anni prima per le sue posizioni estremiste, ma dalla prigione di Fleury-Mérogis dov’era detenuto l’informazione non era stata passata ai servizi francesi. Ma il problema è strutturale, appunto: un poliziotto tre settimane fa s’è rifiutato di dare la mano al presidente e al premier Manuel Valls durante una cerimonia di commemorazione per due agenti uccisi: raggiunto dalla stampa ha commentato che il gesto plateale era dovuto all’esasperazione per le condizioni di lavoro a cui la polizia è sottoposto, con pochi mezzi e fondi per fronteggiare la situazione.

UN PROBLEMA AMPIO CHE COINVOLGE L’INTERA EUROPA

Sébastien Pietrasanta, membro superiore dei revisori parlamentari, del partito socialista, ha invece spostato l’attenzione su una diversa questione, la collaborazione tra intelligence europee. È un discorso aperto, ancora di più dopo i fatti francesi e belgi (gli attentati a Zaventem), che sono sotto molti aspetti collegati: un esempio riguarda la storia di Abdelhamid Abaaoud, il coordinatore operativo degli attentati a Parigi. Già noto ai servizi, era stato rintracciato in Grecia nel gennaio 2015, poi spostatosi in Belgio da dove avrebbe provveduto alla logistica dell’azione. Le informazioni e le segnalazioni però non sono state rapide e complete, e così se ne sono perse le tracce fino ai tragici fatti del Bataclan. “Non abbiamo incontrato un solo funzionario americano che non ci ha veramente spinto a creare e rafforzare una vera e propria intelligence a livello europeo” dice Pietrasanta (la Commissione durante l’indagine s’è spostata per consulenze in Belgio, Grecia, Turchia e Stati Uniti). Salah Abdeslam, a lungo fuggitivo dopo l’attentato, era noto alle autorità belghe, ma non era contrassegnato come militante islamico radicalizzato nel database condiviso con la polizia francese.

UNA QUESTIONE POLITICA

Il gruppo di analisi dell’Assemblée nationale, che era composto da rappresentanti socialisti e dai repubblicani di centrodestra, non ha avuto accesso ai documenti top secret, ma ha comunque potuto interrogare a porte chiuse diversi funzionari, con vari ruoli nell’intelligence, informati sui fatti. Le raccomandazioni seguite agli studi non sono vincolanti, ma è ovvio che si inseriscono pienamente nel dibattito politico, con François Hollande che alle elezioni del prossimo anno (aprile e maggio i due turni) cercherà una complicata rielezione per i suoi socialisti – calo di consensi “abissale”, così il New York Times definisce la sua situazione – incalzato da destra soprattutto dalle posizioni radicali, populiste e antiestablishment del Front National di Marine Le Pen.

MAI NESSUNO TANTO DETESTATO

Dall’ultimo sondaggio fatto da TNS Sofres, risulta che soltanto il 12 per cento dei francesi approva l’operato politico di Hollande: “Non è mai stato destinato a diventare il capo di stato più popolare nella storia recente del paese, ma la misura in cui i suoi concittadini lo detestano ha sorpreso anche i suoi avversari politici” ha scritto in un’analisi sul Washington Post Rick Noak. È un livello di scontento storico, Nicolas Sarkozy, il suo predecessore, non era mai sceso sotto il 30 per cento, e quando lasciò l’Eliseo in molti gli votarono contro solo perché esausti dalla sua presidenza. Dal picco di popolarità seguito agli attacchi del 13 novembre (una specie di rimbalzo borsistico simile a quello di G.W. Bush post 9/11), quando aveva ottenuto la reazione emotiva del mondo schierato al suo fianco e aveva promesso una lotta dura al terrorismo con nuove strategie militari in Siria e Iraq (in realtà mai del tutto implementate), il presidente ha perso oltre 30 punti nei sondaggi. Le ragioni principali sono legate allo situazione economica e alla disoccupazione, argomenti su cui le forze d’opposizioni, il FN soprattutto, hanno calcato la mano sottolineando l’indecisione del presidente nel dettare la linea politica.

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Se a questo si aggiunge che tra la popolazione francese è Vladimir Putin il leader che infonde più fiducia, s’inquadra meglio la debacle hollandiana.

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La presenza di Putin è un chiaro segno di quanto i francesi stanno virando verso Le Pen, che non ha mai fatto segreta la sua ammirazione per il modello costruito a Mosca (il FN ha avuto anche discutibili finanziamenti russi per sostenere le proprie spese elettorali). Per capire quanto stretti sono i collegamenti: martedì il capo del comitato per la Difesa della Duma, la camera bassa russa, l’ammiraglio Vladimir Komoyedov, ha invitato Le Pen a presenziare alla festa della Marina russa che si svolgerà a fine luglio a Sevastopol, in Crimea. È una linea che collega molte delle leadership populiste internazionali: martedì Donald Trump ha aspramente criticato la decisione dell’Fbi di non perseguire Hillary Clinton per la vicenda dell'”Emailgate accusando il sistema di essere “corrotto”. Poche ore dopo Le Pen ha dichiarato che se avesse potuto avrebbe volentieri votato per Trump alle presidenziali di novembre. Trump ha più volte proposto di riaprirsi alla Russia e a Putin come strategia politica internazionale che potrebbe “fare l’America di nuovo grande”, come recita il suo slogan; da Mosca il miliardario-politico americano è stato definito “flaboyant“, brillante, fiammeggiante.

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