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Ha ragione il grande Fiorello a dire a “l’Ora di Rosario”, in rappresentazione al Teatro Sistina di Roma, che la satira sui politici è diventata inutile perché “ormai se la fanno da soli”. Basta vedere quel che accade nel Pd, dove la batosta elettorale subita dal partito, e non solo dal segretario e presidente del Consiglio Matteo Renzi, sta provocando qualcosa non di tragico ma di comico, forse nella inconsapevole voglia di fare concorrenza ad un comico di professione come Beppe Grillo. Che, vincendo 19 ballottaggi su 20 ai quali ha partecipato il suo movimento, portando a casa anche i Comuni di Roma e di Torino, è o appare, a torto o a ragione, il vincitore delle elezioni amministrative di questo 2016. E potrebbe avere posto anche una seria ipoteca, ritrovando l’aiuto gratuito di quello che fu il centrodestra, già ottenuto appunto a Roma e soprattutto a Torino, sulla sconfitta di Renzi al referendum costituzionale di ottobre. E sulla conseguente crisi di governo, forse troppo incautamente promessa dallo stesso presidente del Consiglio con la promessa di tornare a casa.

A farsi la satira da soli sono stati nelle ultime ore due pezzi da 90 di quello che fu il Pci ed è ora, dopo la fusione del 2007 con la sinistra democristiana, il Pd: Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, in ordine rigorosamente alfabetico dei loro cognomi.

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Con un ritorno all’immagine già usata in piena campagna elettorale, senza attenderne i risultati, ma avertendone evidentemente i segni, e comunque abbattendo le ultime distinzioni possibili fra l’originale e l’imitazione che ne fa da tempo l’imperdibile Maurizio Crozza sul palcoscenico, Bersani ha denunciato la presenza addirittura di una “mucca” nella sede del Pd, e più in particolare, nel corridoio dove si affaccia l’ufficio del segretario. Una mucca ingombrante, come tutte le mucche, e per niente stitica, ma incredibilmente ignorata da Renzi e dai suoi fedeli e ambiziosi collaboratori.

Quella mucca, visti i risultati elettorali, può ben essere la rappresentazione del movimento di Grillo, a dispetto delle graziose candidate che hanno battuto a Roma Roberto Giachetti e a Torino addirittura Piero Fassino.

Ora, con tutta la simpatia che egli merita sul piano personale per la sua abituale bonomia, e per le iperboli di cui è capace, sino a fare concorrenza al suo imitatore, se c’è uno nel Pd che dovrebbe sentire rimorsi per la crescita del fenomeno grillino, questi è proprio Bersani.

Fu sotto la segreteria bersaniana, e la sua candidatura alla presidenza del Consiglio, che nelle elezioni del 2013, solo tre anni fa, le truppe grilline irruppero in Parlamento. E da sole, senza alleati di sorta, diversamente da Bersani, che si era apparentato con la solita sinistra radicale smentendo la cosiddetta vocazione maggioritaria vantata alla nascita dal Pd, lo misero praticamente in ginocchio.

Fu sempre Bersani che, salvatosi solo alla Camera con un premio di maggioranza poi dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, decise di investire l’incarico di presidente del Consiglio conferitogli per questo dal capo dello Stato Giorgio Napolitano, corteggiando i grillini sino ad esserne sbeffeggiato.

L’allora segretario del Pd e presidente del Consiglio incaricato, o soltanto pre-incaricato, come si sarebbe scoperto alla chiusura della vicenda, gonfiò tanto di orgoglio i grillini che questi prima lo derisero, come ho già ricordato, respingendone la richiesta di far decollare con qualche assenza nell’aula del Senato un governo minoritario e al tempo stesso – pensate un po’ – “di combattimento”, e poi pretesero di scegliere loro il successore di Napolitano al Quirinale mettendo in pista Stefano Rodotà. Finì, come tutti ricorderanno, con la bocciatura di entrambi i candidati di Bersani, prima Franco Marini e poi Romano Prodi, e con la rielezione del presidente uscente della Repubblica: la prima in assoluto al Quirinale. E fu proprio Napolitano, una volta rieletto, a interrompere quell’inutile corteggiamento dei grillini, purtroppo servito a fare aumentare a dismisura l’interesse attorno a loro. Seguirono con Enrico Letta le cosiddette larghe intese col centro destra per un programma di riforme che fosse in grado di contenere le proteste pentastellate e ammodernare finalmente il Paese.

Quale contributo abbiano poi saputo e voluto dare l’ormai ex segretario del partito Bersani e i suoi compagni alla difesa delle larghe intese e alle riforme si è visto, con tutte le loro resistenze, minacce e dissidenze. E con la contestazione sistematica di Renzi, avvertito come un intruso, alla guida prima del partito e poi del governo. Una contestazione unita all’autolesionistico rimpianto dell’occasione perduta con i grillini all’inizio della legislatura. Anche questo rimpianto e il conseguente inseguimento sono serviti più ai grillini per crescere elettoralmente, nonostante le tante defezioni parlamentari, che a Renzi per governare, dopo il brusco allontanamento di Enrico Letta da Palazzo Chigi.

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E veniamo a Massimo D’Alema. Che senza aspettare la riunione della direzione del Pd convocata per il 24 giugno, ha affidato all’ormai solito e diligente Aldo Cazzullo, del Corriere della Sera, l’annuncio del suo no referendario alla riforma costituzionale targata Renzi e l’accusa al segretario di stare rottamando anche il partito dopo avere rottamato lui.

Eppure fu proprio D’Alema alla fine del 2008, poco più di un anno dopo la fondazione, a liquidare il Pd in un celebre intervento alla direzione come “un amalgama mal riuscito”. Seguirono dopo qualche mese le dimissioni di Walter Veltroni da segretario, cui sono seguiti, tra reggenti e segretari, Dario Franceschini, Bersani, Guglielmo Epifani e Matteo Renzi. Cinque segretari in soli nove anni, quanti ne sono passati dalla nascita, danno da soli la misura della crisi del Pd. Il successore di Renzi, atteso con impazienza da D’Alema, sarebbe il sesto, diciamo. Che è il noto intercalare di stampo un po’ crozziano dello stesso D’Alema. La cui intervista a Cazzullo ha tutta l’aria, peraltro, di una conferma degli umori e malumori attribuitigli fra stizzite smentite e precisazioni, a campagna elettorale ancora aperta, dal retroscenista Goffredo De Marchis su Repubblica.

Tutte le tragicomiche amnesie di Bersani e D'Alema su Pd, Grillo e Renzi

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