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Alla vigilia del referendum sulla Brexit, che vedrà Donald Trump in Scozia per l’inaugurazione d’uno dei suoi hotel con campo da golf annesso, Hillary Clinton attacca il rivale sul fronte dell’economia: “E’ un pericolo per l’economia americana, ci spingerà in recessione. Le sue idee, se attuate, sarebbero un disastro”, dice a Columbus in Ohio. E aggiunge, citando l’opinione di esperti: “Ed è un pericolo per l’economia mondiale, come l’ipotesi della Brexit e della disintegrazione dell’Ue”.

HILLARY VS DONALD, BOTTA E RISPOSTA SULL’ECONOMIA 

L’ex first lady definisce poi il magnate “King of Debt”, il re del debito: “Non può fare il presidente: con lui, gli Stati Uniti rischierebbero di finire in default, innescando il panico globale”.

La replica dello showman non si fa attendere: “Come può Hillary guidare l’economia americana, se non riesce neanche a inviare una email senza mettere il Paese a rischio?”, s’è ironicamente chiesto, facendo riferimento allo scandalo emailgate, cioè all’uso da parte della rivale di un account privato di posta elettronica quando era segretario di Stato.

Poi Trump s’è ammantato del titolo regale conferitogli dalla candidata democratica: ”Sì, sono il re del debito. Va bene per me, ma so che è sbagliato per il Paese. Ho fatto una fortuna sul debito, ma risolverò il nodo del debito Usa”, salito a oltre 20.000 miliardi di dollari sotto la presidenza Obama.

TRUMP, CAMPAGNA A SECCO, MA MANNA PER LE SUE AZIENDE

Intanto, però, il magnate deve risolvere i problemi finanziari della sua campagna che, all’inizio di giugno, aveva in cassa appena un milione 300 mila dollari. I cosiddetti Super Pac non sono affatto generosi con Trump, le cui cifre non reggono il confronto neanche con la campagna 2012: il candidato repubblicano Mitt Romeny aveva raccolto in quel maggio 76 milioni di dollari.

Fra i democratici, Hillary ha raccolto 42 milioni, anche grazie ai Super Pac. E pure Bernie Sanders se la passa meglio di Trump: a inizio giugno, aveva in cassa nove milioni, quasi due milioni in più rispetto al mese precedente.

Se la campagna del magnate non riesce a decollare in tema di raccolta fondi, la corsa alla presidenza porta invece profitti alle sue aziende: si calcola che, solo a maggio, abbiano incassato oltre 6 milioni di dollari dalla campagna nei modi più disparati.

Quando Trump si sposta, per esempio, usa il suo jet privato – e la campagna lo paga – , quando fa tappa usa i suoi alberghi e il suo quartier generale è in una sua proprietà, la Trump Tower. E, ancora, la campagna acquista acqua e altri prodotti a marchio Trump.

Il tycoon non è il primo miliardario a correre per una carica pubblica: fra chi lo ha preceduto, ci sono l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg e Steve Forbes, ex candidato alla nomination nel 1996 e 2000. Entrambi possiedono aziende che portano i loro nomi ma, a differenza di Trump, entrambi avevano tenuto separate le campagne elettorali dagli affari privati.

LA CORSA DI SANDERS, UNA BATOSTA PER L’ERARIO

Se la campagna di Trump è una manna per le sue aziende, quella di Sanders è una batosta – calcola il Washington Post – per i contribuenti americani: il senatore del Vermont, pur battuto, non ha ancora gettato la spugna e continua a usufruire, come candidato, della protezione del Secret Service, con un costo di circa 38mila dollari al giorno – cioè, un milione di dollari al mese – .

I costi per la sua protezione saranno ancora più alti durante la convention di Filadelfia, a fine luglio. Sanders “è in una sorta di purgatorio politico – sostiene Mary Anne Marsch, stratega democratica – . Crede di essere ancora in corsa per la presidenza, ma in realtà non lo è”. Però, costa all’erario come se lo fosse.

(post tratto dal blog di Giampiero Gramaglia)

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