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Non si possono che condividere, naturalmente, l’indignazione del ministro Graziano Delrio e il suo esposto alla magistratura dopo avere scoperto, fra le intercettazioni diffuse dagli inquirenti di Potenza sull’affare petrolifero di Tempa Rossa, l’esistenza di un odioso dossieraggio, o qualcosa di simile, per presunti contatti avuti qualche anno prima, quando era sindaco di Reggio Emilia, con esponenti della malavita calabrese.

In particolare, un consulente del dicastero dello Sviluppo economico, intercettato al telefono il 29 gennaio 2015 con il convivente, almeno allora, della ministra Federica Guidi confidò di poter disporre a giorni o ad ore, grazie a un carabiniere, di una foto compromettente di Delrio. Essa avrebbe potuto o liquidarlo politicamente o consentire a qualche malintenzionato di ricattarlo, magari piegandolo agli interessi di affaristi in attività permanente, sempre alla ricerca di spinte, autorizzazioni, nomine e quant’altro potesse essere loro utile.

Eugenio Scalfari nel consueto incontro domenicale con i lettori della sua Repubblica, dopo il solito elogio di Papa Francesco, ha forse visto anche in questo un segno della “palude” affaristica nella quale “annaspa” il governo di Matteo Renzi.

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Personalmente, non conosco Delrio. Ma dal primo momento non ho avuto dubbi sul carattere cialtronesco di quella telefonata intercettata, ma soprattutto diffusa sul suo conto nell’ambito dell’inchiesta di Potenza su petrolio ed altro. Mi bastano e avanzano, lombrosianamente, la sua faccia e soprattutto la sua storia di amministratore locale e poi di esponente di governo per considerarlo un uomo perbene. E per pensare solo ad un sosia se qualcuno me lo facesse vedere in una fotografia davvero compromettente, non quella banale di un sindaco assieme ad altri sindaci in visita in un comune calabrese gemellato con la sua Reggio Emilia.

Premesso doverosamente e sinceramente tutto questo, non capisco tuttavia perché il mio carissimo amico Paolo Mieli, sempre e simpaticamente facendo un po’ lo storico e un po’ il giornalista, e riuscendo bene in entrambi i mestieri, abbia sentito il bisogno, ospite con lo stesso Delrio nello studio televisivo di Lilli Gruber, di mettergli addosso più gradi politici di quanti già non ne avesse al momento della sciagurata intercettazione telefonica.

Allora Delrio non era neppure ministro delle Infrastrutture. Lo sarebbe diventato dopo due mesi per sostituire il dimissionario Maurizio Lupi, travolto pure lui da una storia d’intercettazioni. Egli era solo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, anche se, essendo il primo dei collaboratori di Matteo Renzi, con funzioni di segretario delle sedute del Consiglio dei Ministri, valeva di fatto più di un ministro. Dalla sua scrivania, e dal suo telefono, doveva veramente passare tutto prima di dare l’ultima parola al capo del governo, o all’organo collegiale. Ce n’era abbastanza quindi per procurargli corteggiamenti o agguati di affaristi, secondo le circostanze.

Eppure Mieli ha voluto attribuirgli alla fine di gennaio dell’anno scorso anche la figura di candidato alla successione del dimissionario Giorgio Napolitano al Quirinale, perciò potenziale oggetto di dossieraggio da parte di sostenitori di altri in corsa per la Presidenza della Repubblica. Diciamo la verità, quella candidatura lì, al posto di Sergio Mattarella, eletto il 31 gennaio, non era mai stata in piedi davvero, anche se Delrio si è lasciato scappare un sorriso compiaciuto alla promozione conferitagli da Mieli. I malintenzionati si accontentavano di colpirlo come sottosegretario, ma finendo per trovarselo il 2 aprile ministro delle Infrastrutture, ancora più pericoloso per i loro progetti d’affari.

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Già tesi di loro per le critiche formulate agli inquirenti di Potenza, i rapporti di Renzi con la magistratura sono destinati a surriscaldarsi con l’elezione, d’altronde prevista, di Piercamillo Davigo a presidente dell’associazione nazionale delle toghe.

L’ex collega di Antonio Di Pietro a Milano nell’inchiesta di Mani pulite ha assicurato, bontà sua, la disponibilità a confrontarsi con il governo, avvertendo però che le regole in vigore sulle intercettazioni, a dispetto delle opinioni di Renzi, basterebbero a proteggerle dagli abusi. In ogni caso, egli si è trincerato dietro la citazione di un giudice inglese per sostenere che “è giusto che ci sia tensione tra potere politico e giudiziario”.

Ma fu anche un uomo inglese in toga che, ospite una volta del magistrato Rosario Priore nella città giudiziaria di Roma, si sorprese nel vedere insieme, nello stesso ascensore. un pubblico ministero e un giudice. Che in Gran Bretagna hanno carriere e funzioni tanto separate da non poter neppure prendere, appunto, lo stesso ascensore.

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Da un ascensore all’altro. In quello elettorale del 5 giugno a Milano, per l’elezione a sindaco, all’ultimo momento l’ex ministro Corrado Passera, rinunciando alla sua corsa, ha deciso di salire su quello di Stefano Parisi, il candidato di un centrodestra rimasto miracolosamente unito nel capoluogo lombardo grazie soprattutto all’azione svolta nella Lega dal governatore regionale Roberto Maroni.

L’adesione di Passera, cercata saggiamente e ottenuta da Parisi, ha spiazzato il leader nazionale del Carroccio Matteo Salvini, che aveva più volte liquidato lo stesso Passera come ex banchiere ed ex ministro di Mario Monti. Al Matteo padano non resta ora che consolarsi con i veti e le conseguenti divisioni nel vecchio centrodestra procurate a Roma sostenendo la scalata di Giorgia Meloni al Campidoglio. Con quali effetti si vedrà fra due mesi.

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