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Sarà pure la grande sfida europea a Netflix, sarà l’inizio di una nuova era delle pay tv o anche la terza giovinezza di Berlusconi, ma l’accordo tra Vivendi e Mediaset, se resta così com’è, sembra piuttosto un gesto difensivo, quello che gli economisti d’impresa chiamerebbero consolidamento per affrontare una crisi di mercato. A meno che non rappresenti il primo passo per la vendita dell’intera Mediaset.

Questa sì sarebbe una svolta vera in casa Berlusconi, la scelta di collocare l’eredità non più in mano alla famiglia (o alle famiglie sarebbe meglio dire), ma in un gruppo internazionale, sia pur controllato e guidato da un amico (quel volpone di Vincent Bolloré) insieme a un compagno dei bei tempi andati come Tarak Ben Ammar, l’uomo che portava a Tunisi i soldi girati da Berlusconi ad Arafat per conto di Craxi (come ama ricordare il produttore franco-tunisino). Sarebbe una mossa che ha molte similitudini con la fusione della Fiat nella Chrysler, anche se in questo caso sono gli eredi Agnelli a detenere (per il momento) la quota prevalente. Berlusconi, del resto, non ha mai raggiunto, nemmeno in politica, la potenza di fuoco, per così dire, della famiglia che fu egemone nel capitalismo italiano.

Vedremo nei prossimi mesi se effettivamente si tratta di un altro pezzo della industria italiana (dell’intrattenimento in questo caso) che finisce oltre confine, in mano straniera direbbero i nazionalisti. Ma se così non fosse, di per sé la fusione tra Premium e Canal Plus sarebbe un matrimonio senza dote, il patto tra due imprese in difficoltà, il contrario insomma di come viene fatta apparire.

Il primo motivo è che le pay tv sono in crisi; tutte, anche quelle satellitari (Murdoch vorrebbe vendere Sky). La loro sopravvivenza è legata ai diritti per il calcio, un business model che appare molto fragile. Lo ha riconosciuto qualche mese fa lo stesso Bolloré riunendo in Francia i responsabili dei principali club per rassicurararli sulle sue intenzioni dopo l’accordo per prendersi BeIN. Per tutto il resto, il futuro (anzi già il presente) è lo streaming dove Netflix fa la parte del leone.

Ma attenzione, anche la tv generalista non se la passa molto bene. Certo, è ancora dominante (soprattutto in Italia) sul mercato della pubblicità e su quello dell’influenza (finché anche questo mercato non diventerà illegale, visti gli ultimi sviluppi della giurisprudenza italiana). Ma la televisione sta diventando un medium per vecchi i quali sono tanti e in continua crescita, però non rappresentano la fetta trainante nella spesa per consumi.

Dunque, esiste un problema di identità e di modello sia per la tv in chiaro sia per quella criptata, entrambe incalzate dalla convergenza che ruota attorno ai computer e agli smartphone. Sopravvive la tv sovvenzionata dai contribuenti, perché così vogliono i governi che hanno bisogno di persuasori più o meno occulti, non sopravvive invece la tv che si confronta sull’arena del mercato.

In Italia, inoltre, la televisione digitale sta ampliando e diversificando l’offerta, anche se non con la potenza dirompente che Maurizio Gasparri e i suoi sostenitori avevano promesso. Recentemente, Paramount, che fa capo a Viacom il primo gruppo mondiale della tv via cavo, ha fatto irruzione con la sua grande biblioteca di film (non sono tutti nuovi, ma la scelta resta ampia). E Sky già da un anno è stata costretta a trasmettere in chiaro parte dei suoi programmi, come l’informazione o i film nel canale Cielo.

Bolloré conosce bene questa realtà, ovviamente, e le sue mosse sono dettate dalla necessità di far fronte al nuovo scenario concorrenziale. Ma attenzione, l’uomo d’affari francese vuol giocare le sue carte migliori sui contenuti non sui contenitori. Mediaset o Telecom Italia sono dei veicoli, se li possiede bene, ma non sono il core business che sta invece nei film, nella musica, nello spettacolo, e, sia pur come ancella minore sul piano economico, nell’informazione. Telecom se l’è trovata in mano e ha colto l’occasione. Mediaset può essere un’altra chance da cogliere al volo (in questo Bolloré è formidabile). Ma domani potrebbe anche rivenderle, una volta svuotate del nocciolo duro.

La televisione, insomma, è un settore in fase di consolidamento, spinto dalla saturazione del mercato e dalla spinta di “innovazioni distruttive”, proprio come è accaduto per altri rami industriali, manifatturieri in tal caso (si pensi all’acciaio, alla chimica, all’auto). Anche nella televisione gli imprenditori che sono stati protagonisti della fase eroica o anche di quella matura debbono lasciare il campo a nuove figure, proprio come aveva già scritto Schumpeter. Berlusconi è un uomo che non molla, come si è visto in politica, anche quando le cose gli vanno male, ma resta un imprenditore che conosce le leggi bronzee del capitalismo e dell’industria. Per questo possiamo scommettere che Premium-Sky prepara Mediaset-Vivendi e questa a sua volta sarà il veicolo per raggiungere altri obiettivi. E’ il mercato bellezza. Lo ha riconosciuto anche Matteo Renzi.

Certo sono lontani i tempi in cui Massimo D’Alema definiva Mediaset una ricchezza del Paese e si opponeva alla sua ventilata vendita a Murdoch. L’ex comunista D’Alema ragionava ancora in termini protezionistici, e bloccò anche Franco Bernabè quando voleva fondere Telecom Italia e Deutsche Telekom. In quel caso, l’allora presidente del Consiglio favorì Roberto Colaninno, la rude razza padana e i suoi capitali coraggiosi. Oggi Renzi non fa una piega se Bolloré-Vivendi si prende prima Telecom poi Mediaset. Quanta acqua è passata sotto i ponti. L’acqua del mercato o quella dell’influenza? Ai posteri l’ardua sentenza.

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