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Chi si rivede e si risente! Gianfranco Fini, scomparso dai radar politici dopo essersi fatto esplodere come un kamikaze per trascinarsi appresso nella fine l’odiato Silvio Berlusconi. Che però, per quanto ferito, gli è sopravvissuto. Sino a sfiorare la vittoria nelle elezioni di tre anni fa: le stesse nelle quali l’allora presidente uscente della Camera, infilatosi con i suoi nelle liste improvvisate dall’allora presidente del Consiglio Mario Monti, non riuscì invece a tornare a Montecitorio neppure come deputato. Ed ora è solo un giovane pensionato: giovane perché a 64 anni, quanti ne ha lui, nessuno ormai riesce più ad andare in pensione, se non con qualche scivolo prodotto da stati di crisi aziendale.

In fondo, sono state travolte dalla crisi anche le aziende di Fini, intese come i partiti e partitini che egli ha via via guidato e persino creato, e il quotidiano della destra dove ha maturato, credo, una pensione pure di giornalista.

Per quanto sconfitto e pensionato, appeso alla Camera con il suo ritratto nella lunga galleria fotografica degli ex presidenti, Fini non ha perduto la passione politica. O, più modestamente, ne ha una forte e comprensibile nostalgia, per cui ogni tanto cerca di inserirsi nel dibattito fra i partiti, o all’interno di qualcuno di essi. E trova anche qualche generosa sponda mediatica, come quella appena offertagli, a La 7, da Lilli Gruber in una puntata di Otto e mezzo con un titolo forse un po’ troppo enfatico: “La Destra ritrova Fini”.

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È accaduto, in particolare, che Fini si è ritrovato, appunto, con ciò che rimane della destra, e persino del centrodestra di conio ancora berlusconiano, nella contestazione della riforma costituzionale targata Renzi. Che sarebbe troppo modesta e pasticciata anche secondo lui, spintosi pertanto ad organizzare un convegno per proporre ad ex alleati ed amici, fra i quali il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta, di costituire un comitato referendario del no con un titolo pensato per non confondersi con l’opposizione di sinistra di Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Nichi Vendola, Stefano Fassina, Pippo Civati, Maurizio Landini e compagni: “Per la Repubblica presidenziale no alla riforma Renzi”. Che avrebbe i torti di avere ridimensionato ma non eliminato il Senato, di avere ridotto e non aumentato i poteri del capo dello Stato e di non avere potenziato davvero, e chiaramente, le prerogative del presidente del Consiglio. Al quale tuttavia Fini contesta di volere usare il referendum d’autunno sulla riforma per rafforzarsi a Palazzo Chigi, sino a trasformare l’appuntamento con le urne in un plebiscito su di lui. Che è poi la stessa cosa che a Renzi rimprovera la sinistra, convinta che in autunno potrebbe disgraziatamente nascere proprio il presidenzialismo perseguito da tanti anni, e con tanta ostinazione, da Fini.

Ad occhio e croce penso che gli elettori, almeno quelli meno specializzati e sofisticati, probabilmente più numerosi degli altri, stenteranno a capire chi abbia più ragione fra questi  due tipi di opposizione. E finiranno per accontentarsi di una riforma forse modesta, o troppo incisiva, secondo i gusti, ma pur sempre preferibile al niente prodotto dalla politica in più di trent’anni di tentativi di riformare il sistema velocizzando le procedure parlamentari e governative.

Ciò non significa tuttavia che il presidente del Consiglio non rischi la bocciatura. Che potrebbe però derivare non tanto dal contenuto della riforma, quanto dall’impegno di Renzi di chiudere la sua avventura politica in caso di sconfitta: un’occasione di crisi e caduta personale che il presidente del Consiglio ha offerto agli avversari con qualcosa che solo alla fine si capirà se più coraggiosa o imprudente, come Fini evidentemente si augura ritrovando la destra, secondo il titolo della Gruber alla sua intervista, ma anche la sinistra più dura. Che lui d’altronde fece sognare e godere rompendo nel 2010 l’alleanza di governo con Berlusconi.

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Oltre che sul referendum costituzionale, Fini si è affacciato alle più vicine elezioni amministrative, particolarmente a quelle di Roma, per benedire la candidatura a sindaco un po’ deboluccia, per non dire di più, del suo ex portavoce dei tempi missini Francesco Storace, apprezzandone l’esperienza di governo maturata a livello nazionale e regionale. Un bacio politico, quello di Fini, che potrebbe ulteriormente indebolire Storace, cresciuto negli anni scorsi a destra accusandolo di essersene troppo allontanato.

Per quanto malmesso, Storace giganteggia tuttavia sul suo versante rispetto alla sprovvedutezza dimostrata dall’aspirante leader Giorgia Meloni col petardo della candidatura di Rita dalla Chiesa al Campidoglio, e la quasi immediata rinuncia dell’interessata. Un petardo politico esploso peraltro fuori stagione, essendo il Carnevale già passato.

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