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Piccoli passi in avanti in una situazione estremamente complessa nella quale la diplomazia ha svolto e svolgerà un ruolo essenziale. La prudenza che contraddistingue il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, quando parla di Libia non nasconde né quel briciolo di ottimismo rappresentato dai 75 giorni del governo di al Serraj (oggi presente anche con ministeri nel centro di Tripoli e non solo nella base navale dov’era asserragliato all’inizio) né la consapevolezza che senza l’«inclusione» di tutte le parti in causa non si andrà oltre.

Gentiloni, nel quadro disegnato a una conferenza dello Iai, l’Istituto per gli affari internazionali, sulla crisi libica, ha detto che sarebbe sbagliato avere «aspettative miracolistiche a breve» rivendicando un lavoro oscuro delle diplomazie statunitense e italiana per convincere le forze che sostengono il generale Khalifa Haftar a riconoscere il governo di Tripoli: «Ci stiamo lavorando, e non a parole». L’interesse primario dell’Italia, ha ricordato il ministro, resta una Libia unita perché un’eventuale divisione, o tripartizione, comporterebbe aree in perenne conflitto tra loro con il rischio di supporti regionali e internazionali e dunque con una «conflittualità molto significativa».

Importante il successo delle milizie di Misurata e delle guardie delle infrastrutture petrolifere contro l’Isis (che Gentiloni preferisce chiamare Daesh) nei pressi di Sirte: il terreno guadagnato è un elemento «molto incoraggiante» e «il generale Haftar non ha avuto nessun ruolo, su Sirte è stato assente». Dettaglio non secondario, quest’ultimo, anche perché Haftar ha rivendicato più volte di rappresentare l’unico baluardo contro i terroristi e il fatto che Gentiloni l’abbia rimarcato fa capire come la pressione diplomatica possa contare anche su questo.

Il ministro è stato prudente anche in tema di immigrazione: «E’ vero che non c’è una crisi particolare in atto, il flusso di migranti dalla Libia è in calo – ha detto –, ma questo non vuol dire che il governo e la guardia costiera libici possano attuare operazioni come quelle turche». Soprattutto, Gentiloni è stato realista sul futuro: l’obiettivo delle varie iniziative politiche è di ridurre i flussi, ma anche con il Migration compact non ci potrà essere un blocco: «Mentre sono necessari grandi investimenti che porteranno tra 20 anni a un freno dell’immigrazione, nel frattempo occorrono politiche di aiuto ai paesi di transito, come il Niger e altri che sono a sud della Libia».

Prima di lui Pasquale Salzano, direttore Affari istituzionali dell’Eni, aveva ricordato che la produzione di greggio in Libia è scesa a circa 400 mila barili al giorno rispetto agli 1,7 milioni del passato: un paese enorme abitato da appena 6,5 milioni di persone «strategico per la sicurezza energetica dell’area e dell’Europa». E’ questa l’importanza della Libia per l’Italia e la diplomazia, ha ammesso Gentiloni, dovrà occuparsene per anni.

Libia, ecco come Usa e Italia stanno convincendo Haftar a riconoscere il governo Serraj

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