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La radio al Bayan dello Stato islamico il giorno successivo all’attentato di Orlando ha fugato i dubbi di quelli che continuano a costruire sovrastrutture culturali su ciò che è avvenuto al Pulse tre notti fa. Ha chiamato le vittime “Salibiyyin“, ossia “crociati” (terminologia con cui la propaganda islamista descrive l’Occidente), definendo l’azione “Ghazwah“, un raid. È stato un attacco di matrice radicale islamica, non centrano i gay (seppure dall’interpretazione integralista islamica siano elementi da condannare), diretta contro gli occidentali: in tanti sui canali Telegram legati all’IS continuavano a ripeterlo. Forse è stato un mix di entrambi, testimonianza che come l’omofobia, il precariato, la crisi economica, gli ogm, anche il proselitismo califfale è un elemento entrato tra le questioni correnti oglobali. Il fanatismo collegato allo Stato islamico è uno dei problemi globali, una parte, grossa, della situazione: non causato da o conseguenza di. Per essere più chiari: Omar Mateen era un frequentatore del locale che ha messo a ferro e fuoco, raccontano testimoni ai giornali americani (potrebbe benissimo essere stato omosessuale). Il suo gesto ha una matrice religiosa, che si incrocia con la sfera umana, ma, come ha scritto il direttore della Stampa, Maurizio Molinari: “Riconoscere l’identità di un simile nemico è il primo passo da compiere per poterlo battere”. L’omofobia è un aspetto laterale, un proxy, forse: per capirci, di nuovo, il Wall Street Journal, che non è un foglio di qualche corrente politica estremista, ha titolato l’articolo sulla strage in Florida “Jihad a Orlando”, senza cercare riferimenti all’omofobia, a Donald Trump, alle armi, che sono problemi, interconnessi, ma non causa scatenante.

ANDATE E UCCIDETE

Il fatto che l’IS in questo momento sia in grado di veicolare azioni così importanti (49 morti e 53 feriti in un locale di una grande città americana, non in un sobborgo di Sanaa) dà le dimensioni reali della minaccia. Il duplice assassinio avvenuto 48 ore più tardi a Parigi è una sorta di conferma. Non ci sono più soltanto le operazioni militari con cui lo Stato islamico ha conquistato il territorio in Siria e Iraq, o in Libia (attualmente tutti fronti in regressione), non ci sono più gli attentati pianificati che hanno colpito Parigi a novembre, o quelli che continuano a martellare i quartieri sciiti di Baghdad e Damasco, ora la jihad del Califfato si arricchisce di un altro macabro asset ibrido. È stato resto volatile il confine tra azioni organizzate e gesti di lupi solitari: ci si indottrina online attraverso campagne di addestramento e reclutamento accessibili a chiunque, poi si colpisce. E poco importa ai comandanti della giunta militarista di Raqqa se mancano del controllo completo su questo genere di “martiri/soldati/volontari”, quello che conta è l’effetto, soprattutto in un momento come l’attuale in cui lo Stato islamico soffre, ha bisogno di alzare nuovamente il livello e intestarsi dimostrazioni di potenza da vendere agli occhi dei proseliti.

UN COMANDANTE VIRTUALE PER ANONIMI SOLDATI DEL CALIFFATO IN OGNI ANGOLO DEL MONDO

Diventa, per iperbole, quasi inutile cercare di capire se Mateen di Orlando aveva contatti in Siria o in Iraq, perché anche non li avesse mai avuti sarebbe da annoverare lo stesso tra i soldati del Califfo, esattamente come quelli che colpiscono i militari iracheni. Il suo comandante, virtuale, è Abu Mohammed al Adnani, il predicatore che sono almeno due anni che continua a ripetere ai proseliti (nella sua narrativa il messaggio dovrebbe in realtà arrivare a tutti i fedeli musulmani) di colpire senza bisogno di organizzazione, self-jihad, perché, dice l’influente portavoce dello Stato islamico, nessun attacco è troppo piccolo. Tutto serve. Prendete un coltello, un sasso, l’automobile, e lanciatevi contro gli infedeli. Unica regola: dedicate ufficialmente l’atto al Califfo. L’attentatore deve giurare fedeltà allo Stato islamico prima di attaccare, o durante come ha fatto il killer di Parigi Larossi Abballa. Niente di più, solo una firma, ossia solo un segno affinché il Califfato possa intestarsi il colpo.

PISTE IMPOSSIBILI DA SEGUIRE

Così diventa impossibile seguire tutti. Haykal Bafana, attivista yemenita, scrive su Twitter la verità delle verità sul problema di contrastare questo genere di azioni: “Non ci sono gruppi da infiltrare o intercettare, non ci sono leader da eliminare con i droni, non ci sono linee finanziare da interrompere”. Mancano i riferimenti, perché chiunque può agire, basta un’arma qualunque e quell’intestazione esplicita, poi il resto fai da te: scegli gli obiettivi, il luogo, il come, il dove e l’arma.

UN’IMMENSA MOLE DI DATI, SPESSO TROPPI

Pare, secondo il settimanale Point, che ci siano 82 persone che lavorano nella sicurezza di Euro 2016 che sono state precedentemente schedate come “fiche S” nella lista Cristina (Centralisation du renseignement intérieur pour la sécurité du territoire et des intérêts nationaux), quella che racchiude elementi che sono una concreata minaccia per la sicurezza nazionale, ma che non sono mai stati condannati. Anche Abballa ne faceva parte, ma poi era uscito dall’orbita (basta un anno di buona condotta), fatto perdere le tracce mentre gestiva una paninoteca halal, per riapparire con qualche post su Facebook in cui prometteva che gli Europei si sarebbero trasformati in un cimitero pochi giorni prima dell’uccisione dell’agente di polizia e di sua moglie nella propria casa, davanti agli occhi del proprio bambino, mentre si filmava con Fb-Live per dedicare la morte dei Salibiyyin ad Abu Bakr al Baghdadi. Ma più sorveglianza non vuol dire più efficienza, la mole di dati raccolti è già immensa eppure certe vicende continua ad accadere, e l’esempio dell’azione a Parigi, blindata per Euro 2016, dopo mesi di stato di emergenza, è facile da citare. Inoltre, come segnalato tempo fa dal Wall Street Journal tutto questo insieme di dati raccolti crea una serie enorme di falsi positivi su cui gli analisti perdono moltissimo tempo.

IL TERRORISMO PAGA DIVIDENDI A COSTO ZERO E SPACCA GLI EQUILIBRI, PER QUESTO FUNZIONA

Abballa non aveva un’arma sofisticata come Mateen (sì, il problema della diffusione delle armi in America c’è, ma è una circostanza laterale e non la causa di questa vicenda), ma in certe situazioni la determinazione, il fanatismo, l’eccitazione del gesto ideologico, sono la più tecnologica delle risorse, oltretutto “stealth”. “The threat is already inside” titolava un articolo di Foreign Policy uscito nel novembre 2015 dopo gli attentati di Parigi: tesi, basta di descrivere il terrorismo come “scioccante” e “aberrante”, ma individuiamolo come un problema da gestire. Rosa Brooks che ha firmato il pezzo ha elencato alcune verità “che non vogliamo sentirci dire” a proposito del terrorismo. Alcune: non possiamo tenere le persone fuori e sperare che bloccando l’immigrazione si blocchi il terrorismo, perché chi colpisce l’Occidente è già dentro (Mateen e Abballa erano rispettivamente un americano e un francese, cittadini nel pieno dei diritti); sconfiggere lo Stato islamico, fosse anche uccidere il Califfo (al netto di disattenzioni dei media italiani), non significherà bloccare il fenomeno, anzi, in questo momento mentre l’IS arretra dal punto di vista statuale si rafforza nella dimensione terroristica. Il terrorismo, spiega Brooks, è utilizzando perché funziona e paga ottimi dividendi: lo Stato islamico, per esempio, in queste ore sta ricevendo un’enorme attenzione al minimo costo di due vite, i due attentatori volontari rimasti uccisi a Parigi e Orlando. E a questa attenzione corrisponde la paura, il terrore prodotto. Massimo risultato, minimo sforzo: in qualche centro internet forse in Iraq o Siria si sono pensate le campagne di propaganda, qualche versetto alterato, qualche immagine evocativa, una buona grafica e via il materiale online. Centinaia di chilometri più a ovest due ragazzi di meno di trent’anni hanno risposto alla richiesta e hanno colpito destabilizzando un sistema sociale. Ci sono “16.000 persone negli Stati Uniti che sono uccise ogni anno in omicidi ordinari, 30.000 che muoiono di cadute accidentali, 35.000 in incidenti stradali, e 39.000 di avvelenamento accidentale”, un americano che vive lontano da zone di guerra, dice Brooks, ha molte più probabilità di essere ucciso da un fulmine che da un attacco terroristico. Certo “questo non sarà di consolazione alle famiglie delle vittime”, “ma abbiamo bisogno di interrompere la visualizzazione del terrorismo come fenomeno unico”, per più tempo sarà così per più tempo le azioni continueranno a portare frutti e dunque a essere perpetrate, per più tempo la propaganda troverà risposta. Come fare è la sfida più grande del counter-terrorism: intanto, in base a un sondaggio del Pew Research lo Stato islamico è considerato la maggiore delle minacce per il 76 per cento dei cittadini europei, segue il cambiamento climatico, l’instabilità economica, l’immigrazione.

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