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Nello sconfortante scenario geopolitico seguito alle primavere arabe che vede sprofondare tutto il Medio Oriente in un gorgo di guerre civili, settarismo, terrorismo e frammentazione statuale, resiste a fatica l’unica transizione non disastrosa di questi anni: la Tunisia. Il solo Paese arabo uscito dal cambiamento di regime con un percorso accidentato, ma non catastrofico, una sorta di piccola gemma sbocciata nel lungo inverno dello scontento arabo.

L’unica realtà lungo la sponda sud del Mediterraneo ove le forze politiche islamiste (capeggiate da al-Nahda) e i movimenti che compongono il rassemblement secolare sono stati capaci di raggiungere un difficile compromesso politico – dopo aver danzato al lungo sull’orlo della rottura totale – che ha dato vita nel 2014 a una Costituzione estremamente avanzata. L’attuale governo di coalizione, guidato dal partito laico di maggioranza Nidaa Tunis, si trova tuttavia a fronteggiare ora crescenti difficoltà economiche e di sicurezza.

Proprio perché il compromesso fra gli esponenti dell’islamismo politico e le forze secolari rappresenta un’eccezione positiva in un panorama contraddistinto dalla polarizzazione e dal settarismo, vi sono forze che tentano con ogni mezzo di colpire la Tunisia. Primi fra tutti i gruppi estremisti islamici, in particolare Ansar al-Sharia e i movimenti jihadisti che ora guardano a Daesh. In questi anni, le loro cellule hanno assassinato esponenti liberali e attaccato chi si opponeva alla loro visione violenta e dogmatica dell’islam.

Dalla Tunisia sono partiti almeno 6mila giovani per unirsi alle milizie del califfato jihadista, facendo di quello tunisino uno dei contingenti più numerosi (in rapporto percentuale alla popolazione). E potenzialmente più pericolosi, dato che il deterioramento dello scenario di sicurezza in Libia si unisce al cattivo andamento delle operazioni militari nel Levante, spingendo numerosi jihadisti a rifluire verso la regione. Un ritorno estremamente pericoloso, che permette la creazione di nuove cellule attorno a questi returnees jihadists, i quali sfruttano la loro esperienza e il loro ascendente nei confronti dei giovani tunisini vicini all’islamismo radicale per minare la situazione politica.

Aiutati in questo da esponenti delle formazioni salafite, a parole contrarie alla violenza, anche se molto meno nei fatti. È noto come dietro alle proteste e agli scontri di queste settimane, generati dall’esasperazione popolare per la disastrosa situazione economica, vi sia una parte della galassia islamista: salafiti-jihadisti, frange di al-Nahda ostili al compromesso, giovani estremizzati dalle campagne di radicalizzazione, vere e proprie cellule terroristiche che si rifanno ora a al-Qaeda ora a Daesh.

Queste ultime organizzazioni, in particolare, beneficiano dell’anarchia in Libia per colpire dove la Tunisia è più vulnerabile, vale a dire attaccando i turisti stranieri. L’obiettivo è minare il pilastro principale dell’economia tunisina (assieme alle rimesse dei migranti), ossia il turismo internazionale. Una ricerca del tanto peggio tanto meglio, contro il quale il governo ha potuto fare ben poco: bastano infatti un paio di sanguinosi attacchi terroristici – come quelli del 2015 al Museo del Bardo o nel golfo di Hammamet – per svuotare per lungo tempo le spiagge e gli hotel. Aggravando così la già drammatica situazione economica e distruggendo decine di migliaia di posti di lavoro, producendo una massa crescente di giovani disoccupati, delusi, arrabbiati e più facilmente radicalizzabili.

Per questo il governo ha creato un “muro”, ossia una barriera di sabbia, fossati, postazioni di controllo e sorveglianza verso la Libia. L’obiettivo è proteggere meglio il Paese dal contagio jihadista, dovesse ulteriormente precipitare lo scenario di sicurezza dell’instabile ingombrante vicino. Anche se sono evidenti altre motivazioni: rendere più difficile lo spostamento di libici in Tunisia – una presenza sgradita e in continuo aumento – così come offrire un’immagine di sicurezza tanto all’interno quanto all’esterno del Paese. Accusato di essere sempre “un passo indietro” rispetto alle forze terroristiche, il governo cerca così di mostrarsi proattivo e di saper gestire l’emergenza.

Tuttavia, è difficile tener lontano le forze jihadiste quando a migliaia hanno il passaporto tunisino o quando vi sono movimenti che dall’interno lavorano per lo scenario peggiore. Ma soprattutto, la partita decisiva che la Tunisia sta giocando si può risolvere solo su un altro livello, ossia affrontando la questione economico-sociale, la mancanza di lavoro, di prospettive, di case. È la percezione di essere intrappolati in un labirinto, di veder calpestata la propria dignità, che spinge molti tunisini a sentirsi traditi dalla rivoluzione del 2011 e a cedere alla prospettiva della rabbia e della violenza.

Una partita che Tunisi non può giocare né tantomeno vincere da sola, alla luce della difficile congiuntura economica, della crescente massa di disoccupati (quasi 1 milione su meno di 11 milioni di abitanti), della fuga dei turisti stranieri e degli investitori. Dall’Europa sono giunti aiuti per lo più in forma bilaterale, ma è evidente un ritardo nella pianificazione di un pacchetto di assistenza organico e complessivo, che sostenga il Paese a livello tanto economico quanto di sicurezza.

Un po’ per la nostra crisi economica, un po’ perché vi sono altre aree del Medio Oriente che drenano la nostra attenzione, la Tunisia sembra scivolata in secondo piano. È un errore strategico, dato che è molto meno difficile agire prima che la situazione degeneri, piuttosto che intervenire nel marasma della frammentazione e della violenza, come ci insegnano la Libia e la Siria. Tuttavia, smarrita com’è nelle proprie faide interne e ossessionata dagli “zero virgola” dei propri bilanci, non abbiamo dubbi che l’Unione europea non perderà questa nuova occasione per dimostrare la propria irrilevanza geostrategica e la propria miopia.

(Articolo pubblicato sul numero di Formiche di marzo)

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Ecco come la Tunisia cerca di difendersi dallo jihadismo

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