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La dura reazione del presidente della Commissione Europea alle critiche insistite di Matteo Renzi, accusato addirittura di “vilipendio” delle istituzioni comunitarie per avere osato dubitare, in pratica, della loro autonomia nei rapporti con la cancelliera di Berlino, ha fornito un’occasione eccellente al capo del governo italiano per un vantaggioso rilancio. Vantaggioso perché la polemica con Bruxelles aumenta il protagonismo di Renzi. E lo aiuta sia a distrarre l’attenzione dalle difficoltà che gli stanno procurando talune vicende, diciamo così, domestiche – dalle banche alle unioni civili, con adozioni annesse – sia ad affrontare la concorrenza elettorale di grillini e leghisti, concordi nella rappresentazione di un’Italia danneggiata da una gestione sostanzialmente germanica dell’Unione Europea.

Mi sembra francamente difficile liquidare come una manifestazione di bullismo personale e politico il proposito dichiarato da Renzi di non lasciarsi “intimidire” dal presidente della Commissione di Bruxelles.

 

Fra Jean Claude Juncker e Renzi chi ha di più il coltello dalla parte del manico è il primo, per cui l’altro è credibile quando si sente minacciato e rivendica il diritto di difendersi e di essere rispettato. I contenziosi aperti o minacciati a Bruxelles, e a Berlino, contro la solita Italia troppo furba e spendacciona, refrattaria a fare i compiti a casa, sono francamente troppi. Lo dicono anche europeisti di maggiore esperienza e convinzione di Renzi: per esempio, l’ex presidente della Commissione comunitaria Romano Prodi. Che già a Bruxelles aveva definito “stupidi” i parametri europei applicati senza la necessaria “flessibilità”, purtroppo interpretata da Juncker anche nella polemica con Renzi come una propria, generosa invenzione e concessione, e non come un dovere della Commissione. E un diritto di chi la rivendica nei modi e nei tempi prescritti.

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Ai primi tempi della Lega, quando i suoi dirigenti andavano a lezione dal professore Gianfranco Miglio, che li riceveva contando in tedesco con la moglie le galline che affollavano il cortile di casa, Umberto Bossi iscriveva d’ufficio al “libro paga di Berlusconi”, con il quale aveva appena rotto l’alleanza elettorale del 1994, chiunque nel suo movimento non gli ubbidisse. Persino Bobo Maroni, rammaricato di avere perduto il Viminale, rischiò di essere scambiato per un dipendente di Arcore.

 

Ecco, se Bossi fosse ancora il segretario del Carroccio, avrebbe già iscritto al “libro paga” di Renzi il lussemburghese presidente della Commissione Europea per gli argomenti che ha procurato al capo del governo italiano con il suo troppo sprezzante attacco. E non è detto che non lo faccia adesso Salvini, una volta tanto in sintonia col vecchio leader che ogni tanto lo sfotte, pur non potendogli contestare il merito di avere rianimato elettoralmente il partito approfittando delle difficoltà di Forza Italia.

Al “libro paga” di Renzi i leghisti sono forse tentati di mettere anche i loro concorrenti grillini per una gestione così malaccorta del pur modesto potere locale conquistato con le loro 5 stelle, anche in zone ad alta intensità criminale, da tirare fuori dall’angolo, o quasi, le tante e tanto malmesse amministrazioni comunali targate Pd.

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Di fronte alla durezza dello scontro fra Roma e Bruxelles, e alla consistenza degli interessi in gioco, che sono economici, finanziari, sociali e politici, il presidente del Consiglio si aspettava probabilmente una mano dal suo estimatore ed amico personale Mario Calabresi, appena insediatosi alla direzione di Repubblica, la quarantenne corazzata della sinistra italiana.

Ma il successore degli emeriti Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro, pur avendo dato il giusto risalto alla polemica nella titolazione della prima pagina, se n’è tenuto prudentemente lontano nel lungo editoriale d’insediamento. Con il quale ha pur promesso ai lettori di raccontare “le sfide di un mondo estremamente complesso e difficile da spiegare”.

Le sfide scambiatesi dai presidenti della Commissione Europea e del Consiglio italiano non hanno evidentemente scaldato o incuriosito Calabresi, forse in attesa dell’abituale omelia laica del fondatore del giornale. A meno che non si voglia interpretare anche come una manifestazione d’implicita equidistanza fra Roma, Bruxelles e, naturalmente Berlino, il generico rammarico di Calabresi per questa “epoca di divisioni, di cinismo e di impazienza”, in cui “si è perso il gusto per le sfumature, la curiosità di scoprire somiglianze, oltre che differenze”.

A leggere cotanto sforzo di comprensione, l’esigente e smanioso Renzi avrà controllato il prezioso orologio di turno al suo polso, provvisto anche di datario, per verificare che non si fosse fermato a uno o più giorni prima.

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