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Sono solo 38, meno dei 41 compiuti da Matteo Renzi l’11 gennaio scorso, e più dei 33 compiuti qualche mese fa dalle ministre Maria Elena Boschi e Marianna Madia, gli anni trascorsi da quella maledetta mattina del 16 marzo 1978. Quando l’allora presidente della Dc Aldo Moro, già segretario del suo partito, più volte presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri, per fermarci alle cariche più importanti della sua intensa attività politica, e non parlare delle cattedre dalle quali aveva insegnato il diritto a tantissimi giovani, venne assaltato e rapito dai brigatisti rossi a poche centinaia di metri da casa, fra il sangue dei due carabinieri e tre agenti di polizia della scorta. Che, pace all’anima loro, lo proteggevano con una familiarità esiziale per le vite loro e dello scortato, assecondandone le abitudini negli orari e nei percorsi, trattenendo con sé le pistole d’ordinanza ma depositando i mitra nei bagagliai delle auto. E trasformando il povero Moro, fornito peraltro di una vettura neppure blindata, nell’obiettivo più vulnerabile per chi aveva deciso di colpirlo, preferendolo dopo mesi di appostamenti ai più protetti presidenti del Senato e del Consiglio: i suoi colleghi di partito Amintore Fanfani e Giulio Andreotti.

Fanfani era blindatissimo tra l’ufficio e l’abitazione, in due palazzi dirimpettai. Andreotti si spostava prevalentemente a piedi, gomito a gomito con la scorta, fra i vicoli del centro di Roma che separavano la casa di corso Vittorio Emanuele da Palazzo Chigi, sostando spesso nella Chiesa di piazza del Gesù, dove elargiva elemosine e raccoglieva raccomandazioni. Un’azione di sequestro in quelle condizioni, fra decine o centinaia di passanti, era impossibile.

Sono “solo” 38 anni, dicevo. Ma ne sembrano trascorsi più del doppio, tanto sono cambiate in Italia, e nel mondo, cose e uomini, situazioni e protagonisti. Anche i superstiti servitori dello Stato di quella stagione sono forse cambiati nel loro intimo, se ve ne sono ancora in carriera, o quasi, fra quanti fecero poco o male il loro lavoro di prevenzione e d’indagine. E rispondono con malcelato imbarazzo agli interrogativi cui vengono sottoposti da mesi nell’ennesima commissione parlamentare d’inchiesta su quella vicenda. Che non fu solo la tragedia di un leader politico e della scorta che lo precedette nella morte, ma la tragedia anche di una Repubblica che da allora non fu più la stessa.

Ho già detto e scritto in altre occasioni, con amici che non ci sono più come l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga e Carlo Donat-Cattin, che la Repubblica ideata e voluta dai costituenti, fra i quali lo stesso Moro, subì quella mattina un ictus dal quale non si sarebbe più ripresa. I terroristi beccarono deliberatamente l’uomo meno protetto ma, senza rendersene neppure ben conto, il più decisivo negli equilibri politici e istituzionali del Paese. L’uomo che aveva gestito l’avvio della difficilissima transizione della maggioranza parlamentare di cosiddetta solidarietà nazionale, dopo un turno elettorale dall’esito paralizzante, e che tutti, o quasi, si apprestavano ad eleggere alla fine di quell’anno al Quirinale. Donde avrebbe potuto guidare la transizione in modo più diretto e consapevole.

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Gli unici superstiti di quella tragedia a non essere forse cambiati neppure nell’intimo, che s’impancano ogni tanto a maestri di recupero o reinserimento, d’iniziativa loro o di altri a dir poco sprovveduti, sono gli autori del sequestro e dell’assassinio finale dell’ostaggio. Essi hanno rivelato alla magistratura che li ha inquisiti e condannati solo ciò che hanno voluto o non potevano più negare di fronte all’evidenza dei fatti e delle responsabilità accertate nei tribunali, trattenendo per sé ancora troppo, secondo la ferma e dichiarata convinzione di quanti lodevolmente, specie a livello parlamentare, non hanno mai voluto smettere di indagare in quell’area confusa e torbida di confine fra lo Stato e l’anti-Stato di allora. E forse ancora di oggi.

C’è un capo dello Stato che è morto, il povero Giovanni Leone, portandosi nell’aldilà il dubbio, espresso ancora in vita in una intervista del 20 marzo 1998 al Foglio che in troppi hanno finto e fingono di non conoscere o capire, chi avesse potuto informare gli aguzzini di Moro in tempo perché lo ammazzassero, la mattina del 9 maggio di quel maledetto 1978, prima che al Quirinale potesse essere concessa la grazia, nell’estremo tentativo di salvare la vita dell’ostaggio, a Paola Besuschio. Che era nell’elenco dei tredici “prigionieri”, cioè detenuti per reati di terrorismo, con cui le brigate rosse avevano reclamato di scambiare lo statista rapito il 16 marzo.

Prima ancora di morire, il povero Leone si portò quel dubbio dentro di sé in una drammatica solitudine, nella sua casa alle Rughe, alle porte di Roma, dove si era ritirato dimettendosi il 15 giugno di quel tragico 1978, con sei mesi di anticipo rispetto alla scadenza ordinaria del mandato, sotto la pressione di un’odiosa campagna scandalistica poi sgonfiata nelle sedi giudiziarie. Essa servì cinicamente a compromettere la credibilità dell’uomo, se mai gli fosse venuta la voglia di esprimere con maggiore forza ed evidenza quel dubbio. E di riaprire così il dibattito drammatico, e frettolosamente chiuso, sulla cosiddetta linea della fermezza adottata dopo il sequestro di Moro, sulla quale Leone non aveva mancato di far conoscere il proprio dissenso agli interlocutori politici e istituzionali. Ricavandone solo un doloroso isolamento.

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Nessuno probabilmente ci ha pensato e ci penserà in questo 38.anniversario del 16 marzo 1978, né ci penserà il 9 maggio, quando si ricorderà l’assassinio dell’ostaggio trattenuto per 55 lunghissimi giorni dai suoi carcerieri, ma un fiore potrebbe pur essere portato anche sulla tomba di Leone: o su quella virtuale al Verano o su quella vera nel cimitero di Poggioreale, nella sua Napoli, dove riposa finalmente in pace dall’autunno del 2001.

Egli fu l’unico che cercò di fare davvero qualcosa di utile al povero Moro raccogliendone le disperate grida d’aiuto.

Moro

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