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Nel dibattito pubblico e nell’agenda delle istituzioni, i cambiamenti climatici hanno ormai assunto il ruolo di paradigma totalizzante che svuota la percezione stessa della complessità dei problemi ambientali e diventa, addirittura, una chiave di lettura per la diagnosi di processi sociali, economici e politici come povertà, migrazioni, terrorismo. Ma si tratta di un successo virtuale del catastrofismo: l’assenza di impegni vincolanti può consentire di intraprendere politiche finalmente efficaci.

Uno degli effetti più evidenti del lungo processo che ha condotto all’esito della COP 21 è che, oggi, la questione ecologica e le politiche pubbliche necessarie per affrontarla sono stati oscurati ed assorbiti dalla cosiddetta questione climatica. Non solo: l’approccio ideologico e catastrofistico che sta ampiamente prevalendo nella rappresentazione della questione climatica ha portato interlocutori autorevoli a legare in modo diretto la capacità di ridurre le emissioni di gas serra a quella di prevenire o risolvere fenomeni come i processi migratori o come quello del terrorismo di matrice islamica. Tale tipo di semplificazione deterministica è un evidente sintomo della incapacità (o non volontà) di affrontare con politiche adeguate i problemi complessi che mettono in gioco l’identità ed il ruolo culturale e politico delle società occidentali nello scenario globale. L’accordo sancito dalla comunità internazionale a Parigi, che assume come base l’approccio catastrofistico-emergenzialista ma non riesce a decidere alcun impegno vincolante, evidenzia ancor di più questa contraddizione.

Purtroppo, la questione ecologica, nelle sue diverse articolazioni, resta aperta. Anzi si aggrava, perché ancora non si percepisce da parte delle economie emergenti una sufficiente capacità di evitare, nel loro percorso, gli errori compiuti dai paesi sviluppati. Crisi ambientali in corso, di carattere effettivamente catastrofico, vengono sostanzialmente ignorate dai media se non nella misura in cui vengono confusamente associate alla cosiddetta questione climatica. Vale la pena di ricordare il drammatico livello di inquinamento atmosferico dei grandi agglomerati urbani cinesi che vivono una crisi ambientale e sanitaria simile, due secoli dopo, a quella della prima fase di sviluppo industriale europeo nel 1800. Gli incendi delle grandi foreste tropicali nel sud-est asiatico o il collasso di una gigantesca discarica mineraria che ha sconvolto un grande bacino fluviale brasiliano fino ad impattare gravemente sulla costa atlantica sudamericana sono solo gli esempi più noti di gravi crisi ambientali generate da politiche di sviluppo e di gestione del territorio drammaticamente inadeguate.

Ma ogni problema che non rientra nella rappresentazione della questione climatica avallata dal processo che ha portato all’esito dell’accordo di Parigi rischia di scomparire o di venire travisato nell’agenda delle politiche ambientali nazionali e globali.

Tuttavia, il successo del catastrofismo è virtuale e potrebbe non avere conseguenze durature. L’esito della COP 21, se depurato dall’ideologia “climatista” che porta a investire risorse prescindendo dall’efficacia delle misure, può dare una spinta positiva ad una gestione razionale delle risorse energetiche dal punto di vista ambientale.

Per l’Italia e per l’Europa, la mancanza di impegni vincolanti, uno degli aspetti più criticati del risultato dell’accordo di Parigi, può costituire, in realtà, un’opportunità per superare gli errori del ciclo ventennale di politiche energetico-ambientali avviato con il protocollo Kyoto. Un buon punto di partenza è la consapevolezza manifestata dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi circa l’effettiva posizione dell’Italia in questo percorso. Pochi giorni dopo che l’ISPRA aveva certificato il raggiungimento, già nel 2014, dell’obiettivo UE 2020 di riduzione dei gas serra (-20% rispetto al 1990) da parte dell’Italia, Renzi ha anticipato le prime stime per il 2015, affermando, correttamente, che l’Italia è già oltre, con una riduzione del 23% cinque anni prima del previsto. Questa posizione costituisce una rottura con la tradizionale posizione dell’ambientalismo italiano piagnone e autodenigratorio che ha sempre rappresentato l’Italia come l’ultima della classe senza comprendere le eccellenze del Paese in questo ambito e il loro potenziale per lo sviluppo di politiche ambientali avanzate.

Un altro buon punto di partenza è la nuova impostazione delle politiche UE per gli obiettivi 2030 che ha rimosso gli obiettivi vincolanti a livello nazionale per le rinnovabili e previsto, invece, un processo di verifica e cooperazione più stretta nella definizione dei nuovi piani nazionali 2030 per l’energia e il clima. Ciò può consentire all’Italia di superare gli errori del passato che hanno portato ad una mobilitazione spropositata di risorse solo per le rinnovabili elettriche: un peso di circa 13 miliardi all’anno sulle bollette degli italiani, che, oltretutto, finisce per penalizzare la competitività degli usi efficienti del vettore elettrico.

Lo sproposito delle risorse impegnate dal nostro Paese sullo strumento meno efficiente per la riduzione dei gas serra risulta ancora più evidente se si pensa che a Parigi è rimasto irrisolto il problema dei 100 miliardi di dollari all’anno che, complessivamente, i paesi ricchi del globo dovrebbero mettere a disposizione di quelli poveri per sostenere in modo equo il loro sforzo per la riduzione dei gas serra senza essere penalizzati nel loro percorso di sviluppo.

Con la nuova impostazione del pacchetto UE 2030, ci sono tutte le condizioni per una strategia italiana 2030 basata prioritariamente sulla promozione dell’efficienza energetica in chiave di aumento della competitività del sistema paese, sulla diffusione delle rinnovabili termiche e sulla penetrazione degli usi efficienti del vettore elettrico. Si tratta di disegnare una strategia di politica industriale ed economica mirata a superare virtuosamente la crisi economica che ancora pesa sulle prospettive del Paese e di generare un ciclo economico positivo che possa alimentare la stagione di investimenti, da parte di imprese e famiglie, necessari per conseguire gli obiettivi 2030 di politica energetica e ambientale.

A fronte degli esiti di Parigi, però, resta sempre più critica ed isolata la scelta dell’UE di puntare sul sistema ETS come principale strumento per conseguire la riduzione delle emissioni di gas serra. In questo caso, il Governo dovrebbe prestare maggiore attenzione alle sollecitazioni avanzate su questo tema dai due campioni italiani del settore energetico, ENI ed ENEL, che sono proiettati nella dimensione e nella dinamica dei mercati internazionali dell’energia. Essi pongono la questione dell’approccio unilaterale delle politiche UE che, con il sistema ETS, penalizza i livelli di eccellenza raggiunti in Italia e in Europa nello sviluppo dell’efficienza energetica e nella diffusione delle fonti rinnovabili. Col sistema ETS si è alimentato un processo di delocalizzazione delle attività industriali senza dare alcuno stimolo ai paesi emergenti ed in via di sviluppo nel processo di decarbonizzazione delle loro economie. E’ ormai chiaro che è indispensabile fissare un sistema di “carbon pricing” coerente con le regole del WTO che faccia pesare in modo uniforme a livello globale il contenuto di emissioni gas serra dei prodotti che circolano nei mercati internazionali: il Governo Italiano ha le carte in regola per farsi promotore dell’adozione di una carbon intensity tax che valorizzi sui mercati internazionali il livello di eccellenza raggiunto dal sistema produttivo del Paese nell’uso efficiente dell’energia.

Articolo pubblicato su Amici della Terra

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