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In tutte le sfide in cui è risultato finora vincitore (da ultima, quella del referendum sulle trivelle), Matteo Renzi ha dovuto fare affidamento soprattutto sulle sue risorse di consumato comunicatore nonché sulla capacità di volgere a proprio vantaggio contraddizioni e “prestazioni ottocentesche” dei suoi avversari interni e dei suoi nemici esterni. Ma oggi quelle risorse e quella capacità non sono più sufficienti a garantirgli un successo duraturo, e sia le prossime elezioni amministrative sia il referendum sulle riforme costituzionali per lui non saranno certo una passeggiata.

Del resto, nonostante l’intatta verve retorica il presidente del Consiglio non sembra avere più lo smalto di un tempo, mentre la diffidenza nei suoi confronti si allarga a macchia d’olio anche in quei ceti che lo avevano premiato nelle urne europee. Le ragioni sono numerose.

Qui mi limito a citarne due che mi paiono di un qualche rilievo, anche se un discorso a parte meriterebbe il danno che arreca alla sua leadership la modesta cifra culturale e politica di alcuni collaboratori (vedi #Ciaone). La prima riguarda il mancato rinnovamento della periferia del Pd, che resta infiltrata e presidiata dal clientelismo dei micronotabili (a cui almeno in parte si deve un rapporto difficile, per così dire, con la magistratura). La seconda riguarda il mantra della rottamazione, ormai declinato sempre più in termini ripetitivi e propagandistici. Ad esempio, oggi che bisogno c’è di continuare a delegittimare in blocco tutto il sindacalismo confederale italiano, fino a considerarlo come una vecchia reliquia della stagione fordista?

E oggi che bisogno c’è di continuare a contrapporgli simbolicamente Sergio Marchionne, raffigurato come una specie di santa icona dell’innovazione sociale? C’è infatti un sindacato massimalista e c’è un sindacato riformista. Parlo di quel sindacato che ha fatto accordi proprio con l’amministratore delegato di Fca e che, più in generale, si mostra aperto all’esigenza di modernizzare il sistema delle relazioni industriali. Perché il premier non lo valorizza e non ne riconosce il ruolo per la crescita del Paese? Forse ne ricaverebbe qualche vantaggio in termini di consenso (o di minor dissenso). Lo stesso vale per il mondo dell’impiego pubblico, spesso addidato come una granitica e indistinta realtà, quasi geneticamente refrattaria a ogni cambiamento (e che quindi va scardinata senza andare tanto per il sottile, come si è visto nella vicenda della “buona scuola”). Non è così. “Divide et impera”, dicevano gli antichi.

Provare ad alzare la soglia dell’inclusione e del dialogo, e provare invece ad abbassare quella della rissa e dello scontro frontale: non si tratta di resuscitare la logica nefasta della concertazione, ma di svelenire un clima da showdown, da resa dei conti permanente, minacciando magari lo shock elettorale quando si teme di non riuscire a far passare i propri diktat. È una strada, questa, che non porta da nessuna parte.

Perché Renzi vince ma non convince troppo

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