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Da vecchio cronista politico, che ha letteralmente perduto il conto dei discorsi che gli è toccato di sentire, raccontare e commentare, vi assicuro che Matteo Renzi ha chiuso da autentico leader la sesta edizione della sua Leopolda, come ormai si chiama, dal nome della ex stazione ferroviaria di Firenze dove si svolge, il raduno annuale dei suoi amici e sostenitori.

Il paragone non gli piacerà, o almeno non potrà piacergli pubblicamente perché in fondo anche lui è prigioniero delle convenienze e dei luoghi comuni, per quanti sforzi faccia di esserne immune. Ma questo Renzi ricorda i migliori Craxi e Berlusconi.

Il presidente del Consiglio riporta alla memoria del cronista il Bettino Craxi della sfida ai comunisti, che lo guardavano dall’alto della loro presunzione di rappresentare il meglio della sinistra, come un intruso o un mostro. Che è poi anche il modo in cui Renzi è visto dalle sinistre interne ed esterne al suo partito, divise in mille rivoli o tribù ma unite dall’odio verso di lui e dalla smania di liberarsene.

Non so se pure lui, come Craxi, non sappia fischiare, anche se penso che l’esperienza da scout gli abbia dato la possibilità di imparare anche questo. Ma sono sicuro che, se gli capitasse di assistere alle intemperanze dei suoi amici, in un congresso o altrove, contro invitati arroccati in una sistematica azione di disturbo e di boicottaggio, pure lui unirebbe ai rimproveri del buon padrone di casa, tenuto ad onorare gli ospiti, la feroce puntualizzazione fatta da Craxi a Verona di fronte alla contestata delegazione comunista guidata da Enrico Berlinguer. “Non so fischiare”, disse Craxi.

Il Berlusconi che Renzi mi ha fatto tornare alla mente, sentendone il discorso alla Leopolda, non è quello del leader di Forza Italia, e poi del Pdl, o il presidente del Consiglio delle varie stagioni in cui gli è capitato di lavorare a Palazzo Chigi. Quel Berlusconi era già cambiato rispetto all’altro che assomiglia al Renzi di oggi. Era il Berlusconi dei raduni dei dipendenti della sua Fininvest, prima ch’egli si decidesse a “scendere” in politica. Il Berlusconi che sapeva galvanizzare i presenti promuovendoli a collaboratori e amici, e mettendo loro “il sole in tasca”, come si vantava dopo ogni raduno. Convincendoli cioè che tutto intorno a loro luccicasse e non potesse che luccicare sempre di più. Il Berlusconi che il già diffidente e supercritico Eugenio Scalfari liquidava come “impresario” e “venditore”, salvo poi trovarselo all’improvviso come suo editore: ruolo dal quale l’allora Cavaliere fu indotto a recedere da una trattativa politica chiesta dagli amici di Scalfari al tanto odiato Giulio Andreotti, in quel momento alla guida di quello che sarebbe stato il suo penultimo governo.

D’altronde, è di solo qualche giorno o settimana fa la definizione data di Renzi dal fondatore della Repubblica: “Il figlio buono di Berlusconi”. Buono, poi, ad avviso dello stesso Berlusconi, ha precisato Scalfari, come per manifestare qualche dubbio, e sospettare che alla fine possa rivelarsi anche peggiore del “padre”.

Con questo Renzi; con la sua carica di ottimismo; con la volontà orgogliosa di non lasciarsi paralizzare o intimidire da gufi e gufetti, di non lasciarsi guastare la giornata dal titolo del solito giornale che ne annuncia la fine o l’ultima nefandezza; con una fiducia mista a sfida espressa nei riguardi dei magistrati, anche di quelli che si ostinano a tenere aperta una vicenda giudiziaria del padre di cui l’accusa ha più volte chiesta l’archiviazione; con lo “schifo” da lui gridato agli “sciacalli” che stanno montando un suicidio, e se ne augurano forse altri, per cavalcare contro il governo il dissesto della Banca Etruria, ed altre minori; con la promessa di non fare sconti a niente e a nessuno quando una commissione parlamentare d’inchiesta ed altri strumenti investigativi accerteranno le responsabilità dei raggiri consumati contro i risparmiatori; con la vantata stabilità del sistema bancario nazionale, maggiore di quello tedesco, per sostenere il quale la cancelliera di Berlino, così severa e diffidente ora nei riguardi degli altri soci dell’Unione Europea, ha speso con il suo ancora più diffidente e severo ministro delle Finanze la bellezza di 247 miliardi di euro prelevati anche dalle nostre tasche; con questo Renzi, dicevo, sarà difficile che gli avversari riusciranno a spuntarla. E se la spunteranno, sarà ancora più difficile che riusciranno poi a fare meglio di lui.

Non sono riusciti, d’altronde, a fare meglio di Craxi e di Berlusconi i loro avversari, una volta che li hanno abbattuti, con le buone e più spesso con le cattive. Avversari fra i quali non mi sento, nel caso di Berlusconi, di annoverare Renzi, apparendo anche a me, come a Scalfari, e non solo a lui, più come il discendente, il migliore dei discendenti, che come il nemico.

Perché il Renzi della Leopolda mi ricorda Berlusconi e Craxi

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