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Quando decide di investire lo fa in grande stile. Mica spiccioli, ma miliardi sonanti. E’ la finanza islamica, ovvero i fondi di investimento del Qatar, ma non solo. Kuwait, Arabia Saudita e Barhein. Pozzi senza fondo, alimentati dal petrolio e da immense rendite immobiliari. Come i complessi alberghieri della Costa Smeralda, passati dalle mani dell’americano Tom Barrack a quelli degli sceicchi del Qatar. C’è pure il calcio nei blitz degli emiri, come dimostra il caso del Manchester City. Impossibile farsi scappare dalle mani un simile business, pronto ad aggiudicarsi subito qualunque asset. O meglio, quasi. Perché la finanza islamica vuole regole precise, con investimenti e politiche finanziarie allineate ai canoni dell’islam. E non attecchisce nei Paesi poco “sharia compliant“, cioè a corto di regole sufficientemente armoniche con questo tipo di modello. L’Inghilterra ne è un esempio, l’Italia no. Forse è anche per questo che il presidente della commissione Finanze della Camera, Maurizio Bernardo, dalle colonne di Italia Oggi, ha sottolineato l’esigenza di una nuova regolamentazione in chiave fiscale della finanza islamica. Perché regole certe vogliono dire più investimenti e, soprattutto, tasse garantite per lo Stato che li ospita. Cioè l’Italia.

UN BUSINESS DA 2 MILA MLD $ E L’INCOGNITA PETROLIO

Ma quanto vale, oggi, la finanza islamica? Secondo alcune stime di Standard&Poor’s, più o meno 2 mila miliardi di dollari, in pratica quanto il debito pubblico italiano e l’1% degli asset finanziari globali. Una cifra monstre, destinata comunque a salire fino a 3 mila miliardi, nonostante la crisi del petrolio, nell’arco dei prossimi dieci anni. Ma non sono tutte rose e fiori perchè anche la finanza islamica dovrà nel breve termine affrontare delle sfide importanti. Che per S&P sono principalmente 3. Innanzitutto, come detto, il declino dei prezzi del petrolio, perché se il costo dovesse scendere ulteriormente, rimanendo ben al di sotto dei 50 dollari a barile, i Paesi del Golfo potrebbero scegliere di tagliare la spesa per investimenti.  Seguono i rapidi cambiamenti normativi per banche e assicurazioni, in particolare Basilea III e Solvency II, che prevedono parametri stringenti e poco compatibili con i dettami della sharia. E poi c’è un terzo punto, ovvero la frammentazione della finanza islamica stessa, espressione di un mercato composto da una collezione di piccole industrie e che manca di una reale copertura globale. In sostanza, una struttura priva di network e per questo molto eterogenea, che non va certo a braccetto con la globalizzazione.

IL CASO DELL’INGHILTERRA

Il modello della finanza islamica, con le sue regole rigide (vietato investire in settori “immorali” come il gioco o l’alcol, oppure prestare denaro in modo diretto o alzare troppo i tassi), ha faticato a farsi largo nel contesto europeo. Con l’eccezione dell’Inghilterra, dove a Londra si contano già sei grandi banche islamiche. Il premier David Cameron ha più volte detto di voler fare dell’Inghilterra l’hub europeo della finanza islamica (ma è ancora da verificare l’impatto finale del terrorismo su tale orientamento). Germania e la Francia hanno iniziato ad aprirsi a questo mercato con risultati positivi mentre qualche mese fa Khalid Hamad, executive director della Banca centrale del Bahrein ha detto che “la crisi spinge sempre più persone verso di noi. Siamo pronti ad esportare il nostro modello, stiamo intensificando gli sforzi in Europa, America, Estremo Oriente ed ora anche verso l’Italia”. Già, e l’Italia?

L’APPELLO DI VISCO

L’Italia, fino ad oggi, si è dimostrata abbastanza refrattaria verso la finanza targata Corano, come dimostra un recente e accorato appello del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, affinché gli istituti nostrani inizino ad attrarre capitali stranieri interagendo con quei principi che obbediscono alla finanza islamica. “La finanza islamica rappresenta una opportunità anche per il sistema finanziario italiano ma restano anche alcuni temi da affrontare perché possa svilupparsi all’interno di un sistema come quello europeo”, ha detto Visco, ricordando come, per esempio, l’Islam non contempli tassi di interesse, depositi di garanzia o contratti aleatori e incerti (derivati), al contrario del sistema occidentale. Per questo il numero uno di Via Nazionale ha auspicato per l’Italia “un solido bagaglio di conoscenza e di strumenti operativi per interagire con sistemi che rispettino i principi della sharia”.

UNA LEGGE PIU’ SHARIA COMPLIANT

Di qui l’esigenza di rivedere le regole e armonizzare il fisco italiano alle esigenze della finanza islamica, prima che gli sceicchi non portino i loro capitali e investimenti su altre piazze europee. Per questo il progetto della commissione Finanze non dovrà arenarsi tra le Aule del Parlamento. “Abbiamo diversi investitori internazionali che operano secondo i canoni della finanza islamica pronti a investire anche in Italia – ha spiegato Bernardo – Ma una mancata armonizzazione della disciplina tributaria nazionale con questi principi crea un aggravio di carico fiscale ai fini delle imposte dirette e indirette con conseguente antieconomicità dell’operazione per tali investitori che, conseguentemente, preferiscono destinare gli investimenti in altri paesi. Oggi è un’esigenza che non va trascurata”.

Ecco come il Parlamento vuole sedurre la finanza islamica

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