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Martedì mattina ci siamo svegliati e abbiamo scoperto – drammaticamente, tragicamente – che il terrorismo è in casa nostra. Non è solo laggiù, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria, dove volano i droni di Obama. È vicino a noi. In Europa. Nel cuore delle nostre città. Ed è qui che dobbiamo combatterlo. Abbiamo cominciato a farlo davvero? Non ancora. Dobbiamo saperlo, capire, agire. La sicurezza di tutti è in pericolo.

I morti di Bruxelles ci dicono molte cose. La prima, e per paradosso la più grave, è il clamoroso fallimento – finora – della intelligence europea. Nessun coordinamento, nessuna guida sicura, nessuna strategia. Ognuno si muove per suo conto, e spesso in modo del tutto insufficiente. Come ha mostrato il caso Salah, non riescono a comunicare tra loro e ad agire di concerto nemmeno il servizio segreto francese e quello belga. È mancata soprattutto la capacità di lavorare in quella terra di mezzo che separa la società civile dai militanti dell’Isis, spezzare le linee di rifornimento, interrompere le catene di collegamento: l’arma usata in tutte le guerre al terrorismo e che risultò vincente in Italia contro le Brigate rosse.

Il secondo, inquietante insegnamento è, per così dire, la parcellizzazione del gesto terroristico. Chi ha armato e organizzato i dinamitardi di Zaventem? Chi ha dato l’ordine? Un Grande Vecchio, una direzione strategica, una cellula eterodiretta o a muoversi è ormai l’individualismo dell’esasperazione bellica? Se, come sembra, fosse più probabile l’ultima risposta, nessuno potrebbe dire chi, dove, come e quando colpirà ancora. Impossibile cercare di saperlo e prevederlo, se non caricando le armi dell’intelligence.

Probabilmente gli attentati di ieri erano programmati da tempo e ad accelerarli è stato l’arresto di Salah, la primula nera del Bataclan che ha attraversato tranquillamente le frontiere ed è rimasto per quattro mesi indisturbato a casa sua, a Bruxelles. Come a dire, non avete affatto vinto, siamo ancora qui più forti di prima. Già, Bruxelles. Ancora una volta la valenza simbolica degli atti terroristici è altissima. E di nuovo metropolitane e aeroporti, luoghi frequentatissimi della nostra vita quotidiana. Ci vogliono immobili e impauriti, costretti a rinunciare a ogni libertà di movimento.

Bruxelles è anche la città del quartiere di Molenbeek, nido e covo di tanti estremisti islamici – “l’elenco delle persone che sono transitate da qui prima di essere coinvolte in attività terroristiche è impressionante”, ha scritto Le Monde – luogo dal quale si sono mossi gli uomini del “Bataclan” e dove Salah si è rifugiato per mesi dopo gli attentati di Parigi e prima del blitz della polizia belga. Un dettaglio che ci offre un terzo insegnamento: al di là delle necessarie distinzioni politiche e strategiche tra Islam estremista e Islam moderato, ora sappiamo che i terroristi possono contare su una vasta rete di protezione, sia che nasca da sincera solidarietà, sia da paura di vendette e ritorsioni. C’è, e garantisce una grande copertura. Rendendo ancora più difficile il lavoro delle forze dell’ordine.

E naturalmente Bruxelles, oltre che sede della Nato nel Vecchio Continente, è la capitale di un’Europa finora imbelle e inconcludente che da anni insegue una nuova identità dopo essere stata messa in ginocchio dai grandi choc degli anni Duemila: crisi economica; immigrazione incontrollata; esplosione del terrorismo islamico. Le bombe e il sangue vogliono ricordarci la pochezza e i limiti di una unità europea che non è mai stata tale.

Bruxelles, infine, è anche la città dove i giovani corrono a studiare e a lavorare cercando qualcosa che non hanno nel proprio Paese o ansiosi di aiutare nelle istituzioni una rinascita europea che è la sola risposta possibile all’avanzare dell’Isis e delle sue filiazioni. Per una sinistra coincidenza, di quelle capaci di legare fenomeni lontani e diversi, le vittime di Bruxelles arrivano subito dopo le ragazze dell’Erasmus morte in Spagna. Come se il fato e il terrore organizzato si dessero la mano per spezzare un sogno e infrangere ogni speranza. Anche per loro non bisogna arrendersi.

(articolo tratto dal profilo Facebook di Bruno Manfellotto)

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